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Albert Einstein in bianco e nero PDF Stampa E-mail

Albert Einstein in bianco e neroUna consolidata tendenza della letteratura scientifica è quella di creare leggende. Da quella di Archimede uscito dalla vasca da bagno nella strada gridando «Eureka!», a Galilei che, oltre ad aver mormorato davanti al tribunale dell’Inquisizione «Eppur si muove!», avrebbe scoperto la legge dell’isocronismo del pendolo assistendo ad una santa Messa nella Cattedrale di Pisa, evidentemente con una certa distrazione. Tuttavia, accanto alle leggende del tutto infondate, che però possono esercitare anche una funzione attrattiva e didascalica, vi sono interessanti aneddoti sugli scienziati più famosi che possiedono un certo fondamento, ed anche un intrinseco ed importante valore concettuale. Infatti, quasi al pari delle storie zen, che si tramandano da maestro a discepolo per evidenziare e concentrare tutta la dottrina in un episodio di per sé illuminante anche nella scienza a volte è più utile ricorrere a qualche aneddoto significativo e divertente, piuttosto che leggere faticose pagine di  ...

... critica epistemologica. Un esempio a nostro avviso molto indicativo è quello relativo a Newton ed alla scoperta della legge di gravitazione universale, di pitagorica impronta (1). Quando Halley seppe che Newton aveva stabilito che la forma ellittica delle orbite planetarie dipendeva formalmente dalla legge dell’inverso del quadrato della distanza, ebbe occasione di chiedere allo scienziato inglese: «Ma come fate a saperlo? L’avete provato?».

E Newton rispose candidamente: «No. Ma lo so! Datemi qualche giorno, vi troverò una prova!». Recentemente, sulle orme dell’illustre esoterista inglese, il brillante premio Nobel per la fisica, Richard Feynman, dopo aver annunziato in una conferenza un nuovo inatteso risultato, ad un ascoltatore che gli aveva posto la domanda: «Dick, questo risultato è molto bello, ma l’hai dimostrato?», rispose: «Perché mai vuoi che lo dimostri, se so che è vero?». Questi due brevi aneddoti contengono un fondo di verità, che si ricollega alla tendenza della scienza, più volte da noi rilevata, ad elaborare modelli e teorie generali sulla costituzione del mondo che in un certo senso precedono la realtà, fondandosi in gran parte sulle personali convinzioni ideologiche degli autori. Proprio la «fede» privata del ricercatore costituisce infatti il fattore «a-priori», che in genere egli con molta abilità riesce a trasporre nella teoria elaborata dal punto di vista specificamente fisico. In questo senso, ciò che in genere caratterizza la nascita delle più importanti teorie fisiche è che: «La dimostrazione viene dopo la convinzione.

L’argomentazione razionale può (e deve) sostenere l’insegnamento e la diffusione delle idee nuove, ma non può affatto accompagnarne il concepimento e la nascita» (2). Solitamente, gli studiosi, per superare le inevitabili complicazioni legate alla formalizzazione delle loro teorie, sono costretti a radicarsi sulle proprie personali convinzioni, un po’ come gli esploratori si appellavano alla fede per portare avanti le loro pioneristiche spedizioni. Cristoforo Colombo ad esempio tornato dal suo viaggio scrisse un «Libro delle profezie», ove, nella prefazione, si legge: «Ho già detto che per la realizzazione dell’impresa delle Indie, la ragione, la matematica e il mappamondo non mi furono di nessuna utilità. Si trattava solo del compiersi di ciò che Isaia aveva predetto» (3). Anche Einstein non sfuggì a questa tendenza generale della ricerca scientifica, essendosi basato per l’elaborazione della teoria della relatività innanzitutto sulle proprie visioni circa il movimento assoluto dei corpi, più che su vere e proprie istanze sperimentali. Meno che mai sull’esperienza di Michelson - Morley, come in genere si sostiene su tutti i testi che trattano gli sviluppi storici della relatività ristretta.

Al contrario, sono proprio le dichiarazioni che lo stesso scienziato rilasciò in proposito a dimostrare l’irrilevante ruolo che ebbe tale esperienza sullo slancio propulsivo della famosa teoria che alterò le concezioni classiche dello spazio e del tempo. Infatti, se Einstein da una parte affermò: «Non v’è alcun dubbio che l’esperimento di Michelson ebbe una notevole influenza sul mio lavoro». Dall’altra, smentì se stesso, dichiarando: «L’esperimento di Michelson-Morley ebbe un effetto trascurabile sulla scoperta della relatività» (4). Più ambigui di così! La seconda affermazione, ossia che la relatività venne elaborata indipendentemente dall’esperienza di Michelson, è tuttavia avvalorata da una significativa ed indubitabile dichiarazione di Einstein, che in genere non viene riportata nei manuali che presentano tale teoria. Ed è facile comprenderne il motivo. Einstein infatti dichiarò: «Nel mio personale sviluppo il risultato di Michelson non ha avuto un’influenza considerevole. Non ricordo nemmeno se ne fossi a conoscenza quando ho scritto il mio primo articolo, appunto quello su cui si discute, sull’argomento.

La spiegazione è che io ero, per ragioni generali, fermamente convinto che non esiste movimento assoluto, e il mio problema era solo di riconciliare questo con la nostra conoscenza dell’elettrodinamica. Si può dunque capire perché nel mio personale sforzo l’esperimento di Michelson non ebbe ruolo, o per lo meno non un ruolo decisivo» (5). Con queste parole, Einstein non solo smentisce la versione ufficiale circa il ruolo primario svolto dall’esperienza di Michelson nella genesi della relatività. Ma conferma in modo evidente che sono le idee personali, più che le risorse sperimentali, ad indirizzare, promuovere e determinare l’indagine e gli sviluppi della fisica teorica. In altri termini, secondo una prospettiva tipicamente kantiana, la natura, più che essere ritenuta fonte di verità, viene costretta a rispondere alle domande che le vengono rivolte in base alla teoria in auge, e che in un certo senso contengono in sé le risposte che si vorrebbero ricavare.

Tuttavia, il senso di questa trascurata testimonianza di Einstein è peraltro confermato da un fatto. Nel famoso articolo del 1905, nel quale viene presentata la teoria della relatività, l’autore non menziona l’opera sperimentale di Michelson, ma riferisce solo in termini generali i «tentativi falliti di scoprire qualsiasi moto della terra relativamente al ‘mezzo luminoso’ (Licthmedium)». Einstein d’altra parte non poteva smentire se stesso, avendo affermato altrove che: «La base assiomatica della fisica teorica non si può desumere dall’esperienza ma è una libera invenzione della mente umana» (6). La famosa simbiosi armonica fra indagine sperimentale ed elaborazione teorica, è peraltro molto spesso solo dichiarata. In genere, sia l’una che l’altra vanno avanti indipendentemente, finché, a posteriori, ci si accorge di un legame che può esser posto fra esse. Giusepe Sermonti mette bene in chiaro questa situazione, quando afferma che: «Le più grandi scoperte compiute da empirici nel campo della scienza sono dovute al caso, e soltanto una serie di equivoci ha indotto ad attribuirle alla metodologia scientifica». Spesso in questi casi viene avviato un processo di «falsificazione», che può sintetizzarsi nelle seguenti fasi: «Lo scienziato trova una relazione empirica, poi formula, lui o un altro, un’ipotesi per interpretare quella relazione.

A questo punto si inverte il procedimento seguito e si finge che la relazione sia prevista dall’ipotesi. Il fenomeno si trasforma quindi nell’intenzione dell’ipotesi» (7). Sempre riguardo al complesso rapporto che si instaura fra la formulazione dei concetti e le esperienze sensoriali, Einstein più volte ebbe a dire che i principi logici che stanno a capo delle scoperte della fisica teorica debbono essere concepiti come libere invenzioni del pensiero, «fantasie» appunto, e non dedotti dall’esperienza come astrazioni, in quanto «ogni tentativo di dedurre logicamente dalle esperienze elementari le idee e le leggi fondamentali della meccanica è destinato a fallire» (8). Per questo motivo, «La fisica costituisce un sistema logico di pensiero che si trova in uno stato di evoluzione, e le cui basi non si possono ottenere mediante un qualsiasi metodo induttivo, ma esclusivamente attraverso la libera invenzione» (9). Secondo questa linea interpretativa, le «libere invenzioni» del pensiero costituiscono il vertice dal quale si avviano quei processi razionali volti a cogliere la logica nascosta all’interno dei fenomeni naturali, ed a colmare quell’abisso: «che separa il mondo delle esperienze sensibili dal mondo dei concetti e delle proposizioni» (10).

Esse rappresentano in sostanza quel «fiat» che mette in moto e determina il conseguente processo di elaborazione logica e formale, attraverso il quale i fenomeni analizzati vengono come isolati dal loro contesto naturale, per essere trasposti all’interno delle rispettive descrizioni teoriche. Attenzione, però: «non come il brodo alla carne, ma piuttosto come il numero di riconoscimento al mantello depositato in guardaroba» (11). In altri termini, nella prospettiva epistemologica di Einstein, la base assiomatica della fisica teorica non deve essere ricavata dall’esperienza per «astrazione», ma deve essere liberamente inventata sulla base di regole e canoni ben formalizzati. Un processo che in un certo senso può definirsi deduttivo, del tipo di quello assiomatico utilizzato da Euclide nel comporre i suoi «Elementi», e da Newton per strutturare la meccanica classica alla luce dei tre principi della dinamica. A questo punto, si determina la contraddizione. Infatti, se Einstein pone la fantasia razionale, il famoso sogno platonico rispetto alla realtà, come punto di partenza del processo di conoscenza del mondo, che si esplica attraverso la capacità del pensiero puro di comprendere il senso profondo dei fenomeni (12), allora non può esserci che una sola conseguenza: al perfezionamento di una teoria fisica, non può che corrispondere un progressivo e quasi necessario distacco dalla dimensione reale. Un paradossale effetto di alienazione dal contesto fisico indagato, proprio perché la fonte della conoscenza è stata posta nella mente e non nella realtà.

Questo processo di «mitizzazione» del reale è riscontrabile specialmente nell’ambito della Relatività Generale, all’interno della quale le quattro coordinate geometriche, relative alla metrica spazio-temporale, pur costituendo gli esili anelli di congiunzione con la dimensione concreta, vengono nel corso della loro definizione svuotate di ogni possibile contenuto fisico, divenendo puri enti di mediazione matematica. Nessuna sorpresa dunque se, sulle linee di tale predisposizione, la rappresentazione formale del mondo fisico quanto più diviene esauriente, tanto più è destinata a slacciarsi dalla situazione concreta dalla quale è scaturita. Infatti, se gli strumenti descrittivi di carattere matematico si perfezionano e generalizzano, allora le formalizzazioni non possono che idealizzarsi in modo conseguente, perdendo però sempre più il significato concreto, indice dell’adeguamento di una teoria con la tangibilità del mondo reale. Fra modello matematico e realtà fisica si determina pertanto come un incolmabile e contraddittorio divario, un’intima ed inevitabile frattura, proprio perché come sostiene Einstein: «Nella misura in cui le leggi della matematica si riferiscono alla realtà, esse non sono certe; e nella misura in cui sono certe, esse non si riferiscono alla realtà» (13).

Questo stato di fatto si impone nella fisica moderna come una sorta di inevitabile bivio, al di là del quale rimangono separati il mondo fisico ed il linguaggio matematico. Quest’ultimo, non più considerabile come un semplice strumento della fisica, ma come la forma stessa della concettualizzazione. Per superare tale scissione, che dialetticamente mette in atto la «polemos», la contraddizione, non resta che la ricerca di una possibile sintesi. Che però non può che avvenire a discapito di una delle due parti. In genere rappresentata dalla realtà ordinaria, con tutte le strutture logiche ed i significati che la caratterizzano. In base a quanto detto, mentre ad una prima analisi può sembrare che la teoria della Relatività tenga conto ed affermi la diversa formulazione delle leggi rispetto ai diversi osservatori, essa invece ricerca ed afferma esattamente il contrario: l’invariabilità delle leggi rispetto ai fenomeni. Ma se il formalismo e le leggi matematiche costituiscono l’elemento invariabile di una rappresentazione fisica, ciò che varia come dicevamo non può che essere la stessa realtà rappresentata. Di conseguenza, la salvaguardia delle leggi centrali di una teoria, non può che comportare un delicato ma necessario superamento della stessa logica con la quale ordinariamente si interpreta il mondo fisico. Ad esempio, perché le leggi fondamentali dell’elettrodinamica siano invarianti è necessario che la velocità della luce, c, sia costante. Ma la costanza della velocità della luce nei diversi sistemi inerziali implica che gli oggetti in movimento si contraggano, che gli orologi in moto ritardino, che non esista una simultaneità assoluta. La realtà è quindi deformata dalla rappresentazione teorica utilizzata.

E la logica, collegata alla dimensione concreta, sostituita da quella propria del linguaggio formale. Infatti, come dicevamo, per salvaguardare se stessa: «la teoria deve attribuire una certa relatività alla sfera delle osservazioni immediate» (14). Non importa dunque se un oggetto che cade da un finestrino possa assumere traiettorie diverse a seconda dell’osservatore in moto o in quiete (per un osservatore in movimento col treno la traiettoria è una parabola, per uno fermo sulla banchina una linea retta). L’oggettività della teoria non deve rendere conto della forma della traiettoria in sé, ma deve essere finalizzata alla ricerca di un’equazione differenziale invariante che descriva la stessa traiettoria in modo analogo, per entrambi gli osservatori. Se dunque la teoria di Einstein ha relativizzato la dimensione degli eventi naturali, insieme alle categorie di spazio e di tempo, ha nello stesso tempo assolutizzato il formalismo matematico. Che a questo punto costituisce la matrice generale nella quale deve rientrare la dimensione dei fenomeni. Al prezzo dell’aumento del divario fra una scienza sempre più esoterica, perché sempre più specifica e settoriale, ed un sapere comune e profano, al quale la stessa scienza però deve e vuole comunque rapportarsi. Ed è proprio per la vulgata, per riallacciare cioè i ponti con l’intendere ed il sentire comune, che spesso vengono messi in circolazione aneddoti ed episodi bizzarri relativi agli scienziati più famosi. Un aneddoto infatti si ricorda volentieri. Anche se si riferisce ad argomenti specifici, in genere ostici. Anche se può mostrare l’altra faccia dei grandi personaggi della scienza.

Quella meno celebrata. Che dimostra come il progresso scientifico non necessariamente è indice di arricchimento spirituale. D’altronde, è giusto che sia così. Infatti, parafrasando il cardinal Baronio, di galileiana memoria, che affermò: «Nella Bibbia, l’intenzione dello Spirito Santo è di insegnarci come si va in cielo, non come è fatto il cielo», la scienza che ci insegna come è fatto il cielo, non serve tuttavia a farci entrare. Dunque, è del tutto inutile per la salvezza dell’anima. E che la scienza pitagorica non agevoli il progresso interiore neanche ai suoi cultori più illustri, è tra l’altro dimostrato dalla seguente nota. Una sorta di spiacevole ultimatum che il giovane, ma già alquanto famoso, Einstein fece trovare alla prima moglie Mileva Maric, il 14 luglio 1918, poco prima della loro separazione: «A) Farai in modo che: 1) i miei vestiti e la mia biancheria siano sempre in buono stato; 2) che io riceva regolarmente i miei tre pasti in camera mia; 3) che la mia camera e il mio studio siano a posto, e che il mio tavolo da lavoro sia riservato esclusivamente a me; B) Smetterai di intrattenere ogni relazione personale con me a eccezione dello stretto indispensabile per le apparenze sociali. Più precisamente, rinuncerai: 1) alla mia presenza in casa con te; 2) alle mie uscite e ai miei viaggi con te. C) 1) Non ti aspetterai nessuna intimità da parte mia e non tenterai alcun approccio con me, 2) non mi dovrai parlare a meno che non te lo chieda, 3) dovrai lasciare la mia camera immediatamente e senza protestare se te lo chiedo» (15). Peraltro, dopo la separazione dalla moglie Mileva, Einstein sull’onda della celebrità fu conteso da molte donne. Fra le quali, la cugina Elsa e la sua più graziosa figlia Ilse. Questa disputa tipicamente femminile si volse a favore di Elsa, che diventò la seconda moglie di Einstein. Ma la giovane Ilse andò comunque a vivere con loro.

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1) Giancarlo Infante, «Newton e la crociata massonica del settecento», EFFEDIEFFE, 4 - 1 - 2008. 2) J. M. Lévy - Leblond, «La velocità dell’ombra - Ai limiti della scienza», Codice Edizioni, Torino 2007, pagine 82-85. 3) Citato da T. Todorov, «Viaggiatori e indigeni», in E. Garin «L’uomo del Rinascimento», Laterza, Roma-Bari, 2002, pagina 336. 4) G. Holton, «La questione Michelson Morley», in F. Balibar, «Einstein la gioia del pensiero», Electa/Gallimard, edizione italiana 1994, pagina 138. 5) In, S. Bergia, «La storia della relatività», estratto dalla rivista «La fisica nella scuola», anno VIII, numero 1, 1975, pagina 31. 6) In I. Rosenthal – Schneider, «Presupposti ed anticipazioni nella fisica di Einstein», in «Albert Einstein scienziato e filosofo», Autobiografia di Einstein e saggi di vari autori a cura di B. Schilpp, Boringhieri, Torino, 1958, pagina 79. 7) G. Sermonti, «La mela di Adamo e la mela di Newton», Rusconi, Milano, 1974, pagine 53-54. 8) A. Einstein, «Dei metodi della scienza», in F. Balibar, «citato», pagina 136. 9) A. Einstein, «Pensieri degli anni difficili», Boringhieri, Torino, 1965, pagina 74. 10) In I. Rosenthal-Schneider, «citato», pagina 80. 11) A. Eddington, «The Philosophy of Physical Science», in I. Rosenthal-Schneider, «citato», pagina 81. 12) Einstein afferma che «Il pensiero puro è capace di capire il reale, come sognavano gli antichi», in I. Rosenthal-Schneider, «citato», pagina 90. 13) A. Einstein, «Geometrie und Erfarhung», in H. Marcenau, « La realtà secondo Einstein», in «Albert Einstein scienziato e filosofo …», pagina 197. 14) H. Margenau, «ibidem», pagina 202 e seguenti. 15) In J. M. Lévy - Leblond, «citato», pagine 115 e 116.  

Dott. Giancarlo Infante (Amico della M.S.M.A.)

 
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