IL TRATTATO DEL PURGATORIO DI SANTA CATERINA DA GENOVA Di don Marcello Stanzione |
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mercoledì 16 novembre 2022 | |
FORMAZIONE DELLA DOTTRINA PURGATORIALE DI CATERINA Nella formazione del pensiero e della dottrina purgatoriale di Caterina notevole influsso, con ogni certezza, esercitò il pensiero e la visione teologica francescana, pensiero assorbito, direttamente, nelle lunghe conversazioni che ella ebbe con Bernardino de Feltre, Angelo da Civazzo ed altri, o dalla lettura di Jacopone da Todi. Merita anche di esser tenuto presente l’influsso, almeno indiretto, esercitato sulla visione cateriniana del Purgatorio, dalle dottrine platoniche e neoplatoniche dell’eros e dell’amor divino, quali la Fieschi poté assorbire per osmosi dal contatto frequente con gli umanisti del suo tempo. ... E’ il tempo in cui Marsilio Ficino scrive il suo “Sopra lo Amore ovvero Convito di Platone”. La catarsi purgatoriale viene vissuta alla luce della concezione cateriana del peccato e del male morale, curiosa unione di elementi negativo – positivi. Per Caterina il peccato presenta due aspetti: è insieme qualcosa di positivo e di negativo. Può essere interessante considerare la visione cateriniana intorno all’essenza del peccato, inquadrandola nello schema dello sviluppo filosofico- teologico dell’idea del peccato e del male. Il quesito: “Che cos’è il male?” viene, generalmente, sciolto in senso negativo. “Il male è niente”. Questa asserzione di Severino Boezio riecheggia tutto lo sviluppo di un profondo, precedente travaglio filosofico ed anticipa la luminosa soluzione data al problema da Tommaso d’Aquino, Se il male è niente, negazione di entità, ne viene di conseguenza che il peccato, male morale, dovrebbe, a prima vista, classificarsi anch’esso nella categoria del nulla. Una forte corrente del pensiero cristiano si polarizza infatti in questo senso. La concezione di S. Agostino intorno all’essenza del male in genere, e del male morale in specie, esclude che il peccato sia sostanza; è noto il passo delle “Confessioni”: “Tutte le cose che sono corrotte sono private di bene. Ma se esse fossero private di ogni bene cesserebbero di esistere. Così esse, in quanto esistono sono buone…Il male non è una sostanza”. (S. Agostino, Le Confessioni, Rizzoli, Milano 1974). La reazione e la condanna alla dottrina dualistica manichea e orientale, che fa del peccato un qualche cosa di sostanziale e positivo, è qui evidente. L definizione che Agostino dà del peccato “dictum, vel factum, vel concupitum, contra legem aeternam”, mette in risalto come questa nichilità del peccato non sia mera negazione d’essere, ma privazione di ordine al fine eterno ed alla suprema bontà. Con tale concezione negativa – privativa del peccato, attraverso Giovanni Damasceno, Scoto Eriugena, Anselmo di Cantorbery e Abelardo, si giunge ai grandi maestri scolastici. Tommaso d’Aquino affronta in pieno il problema della natura del peccato, nel suo stupendo trattato “De Malo”, nella “Summa Theologica”, e particolarmente in una breve ma importante opera “Utrum peccatum sit aliqua natura?”. Egli fonde magistralmente nella concezione del peccato i due elementi, positivo e negativo. Il peccato è una certa qual natura, qualcosa di positivo; ma “inordinatio est privatio”, e, secondo questo aspetto, “peccatum dicitur nihil” (S. Tomasso, De Malo, q.2, a. 2, in Quaestiones disputatae, 15 ed., Torino 1927, pp. 28-32). Il concetto negativo, frutto del pensiero tradizionale, emerge da molte citazioni che si potrebbero fare del pensiero tomistico. Ma anche il concetto positivo, quale reale e vitale tendenza verso l’oggetto cattivo appetito e quale deformazione morale, fa parte del pensiero di S. Tommaso. A tale formazione del concetto positivo non fu, con certezza, estranea la corrente filosofica dualistica orientale intorno all’origine del male, corrente che, sviluppatasi all’ombra del mazdeismo e dello zoroastrismo. Attraverso lo gnosticismo ed il manicheismo penetrò nell’occidente e venne a contatto col mondo greco – romano. Il mito di Prometeo e la concezione orfico – pitagorica, per la quale l’anima umana è chiuse nel corpo come una prigione; il dogma antropologico fondamentale dell’orfismo, cioè l’ereditaria consapevolezza e l’ereditaria partecipazione alla natura divina, trasmesse al genere umano dai Titani, uccisori e divoratori di Dioniso, possono costituire elementi di passaggio alla concezione neo – platonica del peccato, come opera demiurgica, peccato che lascia nell’anima una macchia. E’ doveroso segnalare come in Plotino, forse per la prima volta nella storia del pensiero mistico, il concetto di peccato inteso come macchia dell’anima venga espresso e sintetizzato con forza nuova, in una possente descrizione: “Così risulta di quella totale ignoranza di Dio unica causa è il dar pregio alle cose terrene e disprezzo al proprio essere. Di certo, cosa perseguita e cosa ammirata van di pari passo, e chi ammira e persegue confessa con ciò stesso la sua inferiorità: però col porsi al di sotto di ciò che nasce e muore, col solo supporre di essere la più spregevole e mortale tra le cose che stima, uno non saprà, mai concepire nell’intimo suo, né la natura né la potenza di Dio” (Plotino, Enneadi, 5,1). L’uomo essenzialmente è anima; la materia , il senso, il corpo sono il male. La materia è causa del peccato e lascia nell’anima inferiore, la sola che può toccare, l’asservimento maggiore. Il concetto plotiniano di peccato positivo trapassa da Plotino a Clemente Alessandrino, il quale ci parla della macchia del peccato (Clemente Alessandrino, Stromata, 5,3; 4,24) ed a Origene (Origene, Contra celsum, 7,13; 4,13). Tra i Padri greci si segnala Gregorio Nisseno, che nel suo trattato “De virginitate” fa usa la figura plotiniana della ruggine e ci parla della bruttezza dell’anima guasta dalla turpitudine del peccato, come il ferro è roso appunto dalla ruggine(Gregorio Nisseno, De Virginitate, MG 46, col. 472) . Il concetto che ogni colpa e ogni peccato lasci nell’anima una macchia che la deturpa o sminuisce nelle sue forze spirituali, riaffiora nel pensiero mistico medioevale e specialmente in quello teologico. Infatti un gruppo nutrito di teologi tomisti, quali il Capreolo, Giovanni da San Tomaso, Gonet, sostengono che l’elemento formale costitutivo del peccato consiste in qualche cosa di positivo, e non nella semplice privazione dell’ordine a Dio. Caterina non concepisce il peccato sotto il puro rispetto negativo, quale privazione di bene e di gloria divina, m,a anche come macchia, come ruggine, cioè come una causa e non soltanto un effetto impediente a che Dio risplenda nell’anima. Pertanto la catarsi purgatoriale consiste non solo nello scontare una pena dovuta alla deficienza del bene e dell’ordine debito, ma è, specialmente, purificazione attiva, liberazione dolorosa dalla macchia del peccato.
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