Commento Art.9 S. Tommaso D'Acquino De Malo |
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domenica 05 settembre 2021 | |
Se l’angelo buono o cattivo possa peccare venialmenteA. La distinzione tra l’intelletto dell’angelo e l’intelletto umano a. 1 Premesse di tale distinzione Essendo l’intelletto umano discorsivo, questo può considerare o solo i principi (dell’agire) o solo le conclusioni; mentre l’angelo avendo un intelletto non discorsivo ma simile a quello divino, riconosce le conclusioni negli stessi principi senza alcun ragionamento. ... a. 2 Conclusioni di tale distinzione Poiché nell’ambito delle cose desiderabili e delle azioni il fine sta alle cose ordinate al fine come il principio indimostrabile alle conclusioni, allora l’uomo o è attratto solo dalle cose che sono ordinate al fine o è attratto dal fine stesso in modo separato. L’angelo, invece, volge sempre contemporaneamente la mente alle cose ordinate al fine ed al fine stesso che è l’amore increato di Dio. Di conseguenza, nell’uomo si può verificare un disordine solo per le cose ordinate al fine anche se la mente rimane fissata nel fine stesso; nell’angelo, invece, ciò non può accadere non essendo possibile alcun movimento della ragione che possa separare le cose verso il fine dal fine stesso. Dunque, per gli uomini può accadere di commettere peccato veniale senza il mortale; per gli angeli ciò non può accadere, perché per essi qualunque disordine avviene per allontanamento dal fine ultimo e in ciò consiste il peccato mortale. Cioè l’angelo può peccare solo in questo modo: amando qualcosa di conveniente per sé senza rapportarlo a Dio ed è un allontanamento dall’amore increato in cui consiste peccare mortalmente. Per quanto riguarda il diavolo, egli pecca sempre mortalmente, dal momento che in lui tutti gli atti del libero arbitrio dipendono dall’intenzione di un fine perverso. ART. 10Se il peccato veniale senza la carità sia punito mediante la pena eternaSan Tommaso studia il peccato metafisicamente, cioè nella sua qualità entitativa. Bisogna pensare a ciò che non si dà empiricamente, cioè al di là del mero dato sensibile. Per peccato s’intende una presa di posizione negativa rispetto a Dio e, per contrasto, di un amore disordinato verso se stessi. Ed è per questo che si dice anche che il peccato è essenzialmente aversio a Deo et conversio ad creaturas. La aversio può non essere odio esplicito o avversione, ma soltanto un allontanamento da Dio, derivante dall’avere anteposto un bene apparente o finito al bene supremo (conversio). Il peccato è l’unico male in senso stretto. Gli altri mali (per esempio una malattia), in se stessi non allontanano da Dio, pure essendo sicuramente privazione di un bene.
B. Il peccato mortale e il peccato veniale
b. 1 Distinzione tra i due tipi di peccato
I peccati si possono dividere in mortali o gravi e veniali o lievi (cfr. Gv 5, 16- 17), a seconda che l’uomo perda totalmente la grazia di Dio o no1. Il peccato mortale e il peccato veniale si possono paragonare, rispettivamente, alla morte e alla malattia dell’anima. «È peccato mortale quello che ha per oggetto una materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso»2. - Materia grave: significa che l’atto è per se stesso incompatibile con la carità e pertanto anche con le esigenze inevitabili delle virtù morali e teologali. - Piena consapevolezza (o avvertenza) dell’intelletto: vale a dire, sapere che l’azione che si compie è peccaminosa, ovvero contraria alla legge di Dio. - Deliberato (o perfetto) consenso della volontà: indica che si vuole apertamente una azione, che si sa essere contraria alla legge di Dio. Questo
1 Cfr. Giovanni Paolo II, Es. ap. Reconciliatio et paenitentia, 2-XII-1984, 17. 2 Cfr. Catechismo, 1857-1860. non significa che perché vi sia peccato mortale è necessario voler offendere direttamente Dio: basta che si voglia compiere qualcosa che è gravemente contraria alla sua divina volontà3. Le tre condizioni si devono verificare contemporaneamente4. Se manca una delle tre, il peccato può essere veniale. Questo avviene, per esempio, quando la materia non è grave, anche se c’è piena avvertenza e perfetto consenso; oppure quando non c’è piena avvertenza o perfetto consenso, pur trattandosi di materia grave. Logicamente, se non c’è avvertenza né consenso, mancano i requisiti perché si possa parlare di azione peccaminosa, in quanto non sarebbe un atto propriamente umano.
b. 2 Effetti del peccato
Nella Summa Theologiae, Parte Seconda I (ART.85), è trattato l’argomento degli effetti del peccato: in primis, san Tommaso chiarisce fino a che punto la natura sia toccata negli effetti, evidenziando che il peccato può menomare ma non può distruggere totalmente i beni di natura. Nel primo caso, il peccato pur toccando i principi costitutivi della natura, ha però tolto la giustizia originale ed ha indebolito l’inclinazione alle virtù; nel secondo caso, se il peccato togliesse la ragione che è propria dell’uomo, questo non potrebbe più peccare: dunque, il peccato toglierebbe se stesso. Le altre conseguenze, sono costituite da difetti che insinuano l’anima, quali: fragilità, ignoranza, malizia, concupiscenza. Inoltre, il peccato è un atto privo di misura, bellezza e di ordine e diminuendo queste caratteristiche inficia l’inclinazione naturale alle virtù, fino a toglierle con la perdita della grazia. Inoltre, la morte e le miserie corporali sono il prezzo pagato dall’uomo per il peccato originale in quanto essendo stato creato in anima e corpo incorruttibili, a seguito della disobbedienza, il rimedio posto da Dio al primo atto peccaminoso è la condizione di corruttibilità del corpo, avendo perso l’uomo la giustizia originale. Infine, altro effetto del peccato (S.T. I-II, 87,1-3-4-5.) è la pena quale rivincita sulla colpa e questa si presenta in vari modi: · Il peccato contro la propria ragione implica il rimorso;
3 Si commette un peccato mortale quando l’uomo, «sapendo e volendo, per qualsiasi ragione sceglie qualcosa di gravemente disordinato. In effetti, in una tale scelta è già contenuto un disprezzo del precetto divino, un rifiuto dell’amore di Dio verso l’umanità e tutta la creazione: l’uomo allontana se stesso da Dio e perde la carità». Cfr. Giovanni Paolo II, Es. ap. Reconciliatio et paenitentia, 17.
4 Cfr. Giovanni Paolo II, Enc. Veritatis splendor, 6-VIII-1993, 70. · Il peccato contro la legge umana implica la punizione da parte di chi governa; · Il peccato contro la legge divina implica la punizione da parte di Dio.
Prosegue san Tommaso all’art.87,3 : I peccati che distaccano da Dio, distruggendo la carità, implicano un reato di pena eterna, perché è la carità stessa ad essere il principio dell’ordine costituito e se viene tolto il principio viene tolto irreparabilmente l’ordine. E prosegue (I-II, 87,4): il peccato non merita una pena quantitativamente infinita, perché - La pena è proporzionata alla colpa: · Quanto all’allontanamento da Dio, implica un danno infinito, perché il bene divino è infinito; · Quanto alla conversione disordinata alla creatura, implica una punizione del senso limitata, perché il bene creato è limitato come anche l’azione che lo predilige. Dunque, i peccati che non tolgono l’ordine al fine ultimo meritano una penatemporale e non eterna (I-II, 87,5): perché il disordine dei mezzi non implica una opposizione al fine ultimo.
ConclusioniIl peccato mortale «ha come conseguenza la perdita della carità e la privazione della grazia santificante, cioè dello stato di grazia. Se non è riscattato dal pentimento e dal perdono di Dio, provoca l’esclusione dal Regno di Cristo e la morte eterna dell’inferno» (Catechismo, 1861). Il peccato veniale «indebolisce la carità; manifesta un affetto disordinato per dei beni creati; ostacola i progressi dell’anima nell’esercizio delle virtù e nella pratica del bene morale; merita pene temporali. Il peccato veniale deliberato e che sia rimasto senza pentimento, ci dispone poco a poco a commettere il peccato mortale. Tuttavia il peccato veniale non ci oppone alla volontà e all’amicizia divine; non rompe l’Alleanza con Dio. È umanamente riparabile con la grazia di Dio. “Non priva della grazia santificante, dell’amicizia con Dio, della carità, né quindi della beatitudine eterna” (Giovanni Paolo II, Es. ap. Reconciliatio et paenitentia, 2-XII-1984, 17)» (Catechismo, 1863). |
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