La prima frase è citata da Isaia (6.3), attribuita ai serafini che circondano Dio: 1. Nell’anno della morte del re Uzzia, vidi il Signore seduto sopra un trono alto, molto elevato, e i lembi del suo mantello riempivano il tempio. 2. Sopra di lui stavano dei serafini, ognuno dei quali aveva sei ali; con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi, è due volava. 3. L’uno gridava all’altro e diceva: Santo, santo , santo è il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria! 4. Le porte furono scosse fin dalle loro fondamenta dalla voce di loro che gridavano, e la casa fu piena di fumo. ...
E’ un momento di paura per Isaia che sa di essere ancora un peccatore ( il Dio veterotestamentorio è ancora da temere) non a caso tale descrizione ritorna nell’Apocalisse ( 4.2-8), quando Giovanni vede il Dio giustiziere: 2. Subito fui rapito dallo Spirito. ed ecco, un trono era posto nel cielo e sul trono c’era uno seduto. 3. Colui che stava seduto era simile nell’aspetto alla pietra di diaspro e di sardonico; e intorno al trono c’era un arcobaleno che, a vederlo, era simile allo smeraldo in mezzo al trono e intorno al trono, quattro creature viventi, piene di occhi davanti e di dietro. 7. La prima creatura vivente creatura era simile a un leone, la seconda simile a un vitello, la terza aveva la faccia come d’un uomo e la quarta era simile a un’aquila mentre vola. 8 e le quattro creature viventi avevano ognuna sei ali, ed erano coperte di occhi tutt’intorno e di dentro, e non cessavano mai di ripetere giorno e notte: Santo, santo, santo è il Signore, il Dio onnipotente, che era, che è, e che viene. La parola sabaoth assente nella Vulgata ( che usa exercituum) è un residuo di derivazione ebraica. Di fatto i tre sancta sono già nel Kadusha ebraico ( da Kadosh = santo) e si ritrovano nel rito bizantino ( in greco) e prendono il nome di trishagion ( da hagios). Un forma mista della triplice invocazione in greco e latino è il canto responsoriale tuttora sopravvissuto nella processione del Venerdì santo che prende il nome di Improperia e che sembra ricordare le descrizioni di Tertulliano dei rituali plurilingui del IV secolo. La seconda parte, l’Osanna, riprende l’acclamazione rivolta a Cristo quando entrò a Gerusalemme, attestata da tutti i Vangeli ( Mt 21.9, Mc 11.9, Lc 19.38, 12.13), ricavata dal Salterio (117.26). anche in questo caso la parola Osanna è greca ma di derivazione ebraica. Il Sanctus, sebbene antichissimo, entrò tuttavia nella messa tardi, probabilmente all’inizio del V secolo. Il concilio di Vaison ( 529) ne decretò l’uso ufficiale. Probabilmente in questa occasione si completò, qual sorta di dossologia finale, con L’Osanna. Secondo una definizione medievale di Rabano Mauro, il sanctus è laus ex angelicis et humanis cantibus confecta. E’ lo slancio benedicente dell’Assemblea terrena, che si unisce alle creature celesti. La presenza del Sanctus nella Messa è attestata, per l’Oriente, da documenti come le Costituzioni Apostoliche VIII, 12,27; e, in Occidente, per la prima volta, dalla liturgia di Aquileia alla fine del sec. IV. Questo inno- acclamazione non apparteneva sicuramente all’uso romano prima del sec. V, o della fine sec. IV. Anche nelle comunità di Spagna e Gallia si cantò solo dal sec. V in poi. Nell’Ordinamento generale del Messale Romano al n. 55b si legge: Tulla l’Assemblea, unendosi alle creature celesti, canta o recita il Sanctus. Questa acclamazione, che fa parte della preghiera eucaristica, viene pronunziata da tutto il popolo col celebrante”. Di conseguenza la Schola non può appropriarsene in nessun caso, eseguendo un brano musicale che escluda del tutto l’intervento di tutta l’Assemblea liturgica celebrante. In certi casi, si potrebbe almeno pensare a forme musicali con alternanza, ripetizione, sovrapposizione, distruzione del testo. Il Sanctus subì musicalmente e ritualmente, nel corso dei secoli, vicende simili a quelle di altri canti: Cromazio di Aquilea ( 407) ne attesta l’appropriazione da parte di tutta l’Assemblea; da san Pier Crisologo, Cesario di Arles e altri autori fino alla riforma carolingia, veniva eseguito solo dalla Schola, ecco perché furono elaborate melodie sempre più ornate, con un massimo di fioriture introdotte nei sec. XI – XIV. Con la polifonia il Sanctus diventò un mottetto da ascoltare, di ampiezza tale che il Benedictus qui venit ( pezzo distinto dal Sanctus fino al 1958) venne programmato dopo l’elevazione. Nei libri di canto gregoriano della riforma degli inizi del XX secolo, troviamo ben 18 melodie, più o meno ornate. Chi oggi compone un sanctus non può pensarlo come parte a sé stante o come porzione del vecchio schema della Messa, concepito come insieme di parti di un Ordinario monotematico. Il canto del Sanctus, infatti, scaturisce dalla modulazione del prefazio, il quale va accostato nella ricchezza dei suoi livelli linguistici, che richiedono diversificazione modulazione vocali: si apre con una monizione, prosegue con un dialogo incalzante, culmina con la proclamazione dell’embolismo centrale che sfocia naturalmente, in una tensione in crescendo, nell’acclamazione “ Santo”. Il canto del Sanctus deve creare unità fra coro e assemblea una voce dicentes; esso infatti è il più grandioso inno di unità che la liturgia eucaristica conosca: unità degli angeli tra di loro nella socia exsultatione; unità tra cielo e terra, fra angeli e uomini; unità degli uomini tra loro.
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