Breve storia della Liturgia delle Ore Di Gianandrea de Antonellis |
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sabato, 02 de dicembre de 2017 | |
Non ci sono traduzioni - There are no translations - Nein Übersetzungen - No traducciones - Aucun traductions Le origini della Liturgia delle Ore sono antichissime: esse possono essere fatte risalire alla nascita della Chiesa, che riprese dall’Antico Testamento le indicazioni riguardanti l’uso di pregare in determinate ore del giorno. Un esempio si trova nel Libro di Daniele, dove si afferma che già il popolo d’Israele aveva tempi stabiliti per la preghiera:
Le fonti scritturaliLe origini della Liturgia delle Ore sono antichissime: esse possono essere fatte risalire alla nascita della Chiesa, che riprese dall’Antico Testamento le indicazioni riguardanti l’uso di pregare in determinate ore del giorno. Un esempio si trova nel Libro di Daniele, dove si afferma che già il popolo d’Israele aveva tempi stabiliti per la preghiera:
Anche il Salmo 54 indica una scadenza oraria delle preghiere:
Il momento delle preghiere coincide con quello del sacrificio che si faceva nel tempio di Gerusalemme, come leggiamo sia in Daniele che in Esdra:
Anche nel Nuovo Testamento troviamo accenni agli orari prestabiliti per la preghiera: Gesù stesso, educato da Maria all’osservanza delle orazioni tradizionali del popolo d’Israele, era solito congiungere strettamente la sua attività quotidiana con la preghiera; anzi, ogni sua azione derivava dalle orazioni. I Vangeli ricordano che egli si ritirava spesso nel deserto o sul monte a pregare: «Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava» (Mc 1,35); «Appena li ebbe congedati, salì sul monte a pregare» (Mc 6,46); «In quei giorni Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione» (Lc 6,12); «Congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù» (Mt 14,23). Il Maestro ha ordinato anche a noi di fare ciò che egli stesso ha fatto: «pregate», «domandate», «chiedete», «nel mio nome». Volle anche che, sul suo esempio, pregassimo «incessantemente» (1 Tess 5,17), «sempre, senza stancarci mai» (Lc 18,1), come afferma introducendo la parabola della vedova insistente (Lc 18,2-8). Insomma, una preghiera umile, vigilante, perseverante, fiduciosa nella bontà del Padre, pura nell’intenzione e rispondente alla natura di Dio»[2]. Gli Apostoli, a loro volta, non solo continuarono a richiamare il comando del Signore sulla necessità di una preghiera perseverante e assidua[3], ma insistono sulla sua grande efficacia per la santificazione: «Infatti tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi, quando lo si prende con rendimento di grazie, perché esso viene santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera» (1 Tim 4,4-5). Li vediamo quindi riunirsi per la preghiera all’ora di terza, quando scende su di loro lo Spirito Santo nel giorno della Pentecoste (e Pietro precisa che sono «le nove del mattino», At 2,15). Lo stesso Pietro «salì verso mezzogiorno sulla terrazza a pregare» (At 10,9); anche «Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera verso le tre del pomeriggio» (At 3, 1). La comunità cristiana era anch’essa assidua «nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere» (At 2, 42). E questo fin dall’inizio, quando era ancora viva Maria[4]. Sull’esempio di Gesù e degli Apostoli, ben presto la Chiesa primitiva organizzò la propria vita di orazione destinando tempi determinati alla preghiera comune, come, ad esempio, l’ultima ora del giorno, quando si fa sera e si accende la lucerna, oppure la prima ora, quando la notte, al sorgere del sole, volge al termine. Questa preghiera, insieme alla celebrazione dell’Eucaristia domenicale, costituiva il duplice pilastro di tutta l’azione orante della comunità. Poiché non dobbiamo e non possiamo pensare che nei Libri sacri le indicazioni – anche quelle apparentemente secondarie – siano casuali, evidentemente la scansione della giornata in momenti di orazione è indicata dal compilatore per sottolineare l’importanza della preghiera – comunitaria o individuale – durante la giornata. Una preghiera «liturgica» e «oraria»Due sono le caratteristiche della preghiera: liturgica e oraria. La comunione personale con Cristo si esprimeva anche esternamente con una partecipazione alla comunione ecclesiale per cantare insieme le lodi del Signore e celebrare la sua Pasqua. Quando vi era preghiera comune, ciascuno si preoccupava di parteciparvi sentendo un obbligo morale; secondo la Didascalia apostolorum[5] la non partecipazione era intesa come una «mutilazione» del corpo-comunità:
Ma il testo si spinge oltre, indicando anche i precisi momenti destinati all’orazione:
Sia la tradizione romana che quella giudaica dividevano la giornata secondo alcuni punti di riferimento. Il cristianesimo adottò la divisione utilizzata dai Romani, che suddividevano il giorno in quattro principali horae partendo dal sorgere del sole (prima, terza, sesta, nona) e la notte in vigiliae, contando cioè i turni di guardia-veglia delle sentinelle (una prima vigilia alla sera, una seconda vigilia a mezzanotte, una terza vigilia al canto del gallo, una quarta vigilia all’aurora). I cristiani, facendo riferimento a questa suddivisione, santificarono dapprima le ore del giorno ed in seguito, soprattutto ad opera dei monaci e degli asceti, anche quelle della notte. Alla base di questa “preghiera oraria” stava sempre il comando del Signore sulla vigilanza instancabile nella preghiera[8] per non essere sorpresi nel sonno, in qualsiasi ora del giorno o della notte decida di venire il Signore[9]. Così al mattino, dopo il sonno e dinanzi al rinnovarsi del mistero della luce, era spontaneo il pensiero di ringraziare e lodare l’autore della luce facendo salire verso Dio il ringraziamento e la lode. Alla sera, poi, quando tramontava il sole e nelle case si accendeva la lucerna, si sentiva il bisogno di ringraziare il Signore per il beneficio della luce e per gli altri doni della Creazione e della Redenzione, con una domanda di aiuto per il tempo della notte. Questo rito lucernale era la lode vespertina (cioè del tramonto del sole) a Colui che è «luce senza tramonto»[10]. Tra i vari inni, è noto quello di Prudenzio[11], intitolato Ad accensionem lucernae, il quinto del suo Cathemerinon, dodici composizioni per le varie ore della giornata. Le Lodi mattutine e i Vespri della sera, furono dunque gli elementi più antichi della liturgia oraria. In seguito, con l’Editto di Milano (313) voluto da Costantino e la maggiore libertà di culto, sorsero anche le altre a Ore della giornata con riferimento ad episodi salienti della Rivelazione: l’Ora Terza, a ricordo e santificazione della Pentecoste (At 2,15); l’Ora Sesta a ricordo e santificazione della crocifissione del Signore (Mt 27,45); l’Ora Nona a ricordo e santificazione della Sua morte sulla croce (Mt 27,46). Per le Ore della notte non si hanno notizie precise in questi primi secoli della Chiesa: semplicemente, sull’esempio della Veglia di Pasqua e delle grandi solennità, pian piano sorse la pratica facoltativa, presso alcune comunità, di riunioni di preghiera notturne, che avevano anche il compito di interrompere il riposo notturno come ulteriore sacrificio e quale mezzo per allontanarsi dalle mollezze e dalle tentazioni: ecco spiegata l’introduzione del Matutino (durante la notte, prima dell’alba) e delle Lodi e, successivamente, della Ora prima (verso le sei, dopo le Lodi), oltre alla Compieta, dopo i Vespri e prima di recarsi a dormire. Lo sviluppo storico: dai monasteri alle cattedraliCome accennato, con il primo riconoscimento del cristianesimo nel iv secolo si ebbe un aumento dei luoghi di culto e, di conseguenza, una forte crescita del numero dei fedeli, dei presbiteri e dei monaci; iniziò dunque ad essere necessario determinare meglio da un lato le formule delle preghiere, dall’altro i momenti in cui pregare[12]. Nacque così un duplice genere di ufficio: quello della cattedrale e quello dei monaci. L’ufficio nella cattedrale si sviluppa in un periodo in cui la quasi totalità del clero viveva ancora raggruppato nei centri urbani, intorno al Vescovo. La Santa Messa festiva veniva celebrata esclusivamente nella cattedrale (solo successivamente sarebbe invalsa l’abitudine di celebrarla anche in altre chiese cittadine o in periferia). Di conseguenza, la cattedrale era il centro – non solo in senso burocratico – della vita liturgica e dell’evangelizzazione di tutta la diocesi: la Messa del Vescovo è – tuttora – quella più importante di tutte[13], perché nella sua carica si realizza la plenitudo ordinis, la pienezza dell’ordine sacerdotale, «il primato del sacerdozio»[14]. Una reminiscenza di tale importanza della Messa vescovile si ha nella Messa stazionale, che era quella normativa ed unica nelle grandi festività[15]. Mentre la celebrazione eucaristica era, nei primi tempi, ancora a ritmo settimanale, cioè la domenica, durante gli altri giorni clero e laici si riunivano nella cattedrale al mattino e al tramonto del sole per recitare i Salmi rispettivamente chiamati Laudes e Vespri (questi ultimi, appunto, “preghiere recitate al tramonto”). L’ufficio dei monaci nacque invece in mezzo alle comunità monastiche, che vivevano in isolamento, separate dalla più o meno frenetica vita cittadina, libere da legami familiari, dal possesso di beni materiali, dalle “cure del mondo” e di conseguenza con una maggiore disponibilità di tempo libero (sia in senso materiale che, soprattutto, psicologico) per darsi alla preghiera con una frequenza e una regolarità – Lodi, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespri, Compieta, Matutino – che per i cristiani che vivevano nel mondo (ma anche per lo stesso clero cittadino) non era parimenti prospettabile. Dunque nei monasteri si iniziò a sviluppare e ad organizzare una preghiera più frequente, precisamente regolata, meglio distribuita nel corso delle ore del giorno e della notte. La preghiera continua, scansione puntuale della giornata attraverso l’orazione e la lode al Signore era un mezzo per elevare i monaci, imitando i serafini che, costantemente alla presenza della Maestà divina, ne cantano incessantemente la gloria (cfr. Is 6,3). Un tale parallelo doveva necessariamente esaltare le comunità monastiche; ed il fervore e la magnificenza degli uffici monastici non poteva che spingere il clero ad imitare quanto più possibile i monaci. Quando poi alcuni monaci furono nominati vescovi, la tradizione monastica influenzò l’ufficio della cattedrale. Avvenne così che, alle due Ore dell’ufficio del mattino e della sera (Lodi e Vespri), si aggiunsero le Ore di Terza, Sesta, Nona[16]. La regola di San BenedettoAl tempo di S. Benedetto (480-547) tutta la vita monastica era considerata un opus Dei[17], cioè un’opera divina. Il grande fondatore del monachesimo occidentale, però, volle trasferire questo titolo alla preghiera delle Ore per sottolineare che questa preghiera ha un duplice significato: innanzitutto essa è una opera, un avvenimento, qualcosa che si compie, cioè che si porta a compimento. È un prolungamento di quell’unica “opera” creatrice e redentrice di Dio che culmina nella Pasqua di morte e risurrezione di nostro Signore. Come Dio continuamente è all’opera per noi uomini e per la nostra salvezza, così anche noi dobbiamo operare, soprattutto con la preghiera, affinché l’azione misericordiosa e preveniente di Dio trovi spazio e compimento anche nell’opera di ogni uomo. Recitare la preghiera delle Ore dovrebbe renderci consci di attuare con essa l’opera pasquale di Cristo in noi e nella Chiesa. Per questo San Benedetto voleva che «nulla fosse anteposto a quest’opera divina»[18] che è appunto la preghiera delle Ore. Inoltre essa è un’opera “di Dio”: prima ancora di essere umana, questa preghiera è divina. Ce lo ricorda il ritornello dell’Invitatorio all’inizio di ogni giornata: «Signore, apri le mie labbra: e la mia bocca proclami la tua lode», che sottolinea la subalternità dell’Uomo rispetto al suo Creatore anche nella scelta delle parole per cantare la Sua gloria. Già i Padri avevano spiegato che «Dio dona la preghiera a chi prega»[19]: possiamo dunque riassumere questi concetti dicendo che per San Benedetto la preghiera delle Ore è una collaborazione tra l’agire di Dio in noi con il dono della sua opera di salvezza, e l’agire di noi in Lui con la nostra risposta che culmina appunto nella lode e nell’accoglienza di questo dono. Inoltre il Santo ammise nell’ufficiatura gli Inni, ossia liriche non tolte dalla Scrittura[20], e indicò ai propri confratelli una via di mezzo tra l’uso più semplice dei monaci egiziani e palestinesi e quello dei monaci di Cassino e di S. Colombano, che tendevano piuttosto ad ampliare[21]. Tale sistema fu quello che influenzò la chiesa di Roma, che venne riassunto da San Gregorio Magno (590-604) e, con l’invio dei monaci missionari, si diffuse in tutta Europa. Le «ore» nel MedioevoGià all’epoca di Carlo Magno (ix secolo), quindi, tutti i chierici avevano l’obbligo di prendere parte all’ufficio completo e quotidiano nella loro chiesa. A quel tempo risale la creazione dell’ufficio dei Santi, rimasto fino ad allora limitato ai luoghi di sepoltura dei martiri: esso si fuse e si sovrappose all’ufficio quotidiano; mentre all’ufficio liturgico si aggiunsero altri uffici e preghiere devozionali. Il numero dei Salmi da recitare ogni giorno era diventato così pesante e impossibile che ben presto, con la stessa facilità con cui si era accresciuto l’ufficio, si incominciò ad abbreviarlo. Questo fenomeno, tuttavia, era sintomo anche di un certo calo di spiritualità sia presso il clero che presso i monaci, che si manifestava soprattutto attraverso le assenze al coro. Fino al xii secolo era esistito solo l’ufficio comunitario in duomo; dal Duecento, con l’espandersi delle parrocchie sul territorio, incomincia a divenire necessaria la recita privata dell’ufficio (poiché non è più possibile recarsi in cattedrale). Nascono così i breviari: piccoli libretti che contengono in forma abbreviata e ridotta il lungo ufficio che si teneva nel monastero o nella cattedrale. Si passa da una forma comunitaria e solenne ad una privata ed abbreviata, mentre l’ufficio non viene più sentito come strumento di santificazione che “affianca” chi prega ai serafini, ma il dovere quotidiano da assolvere obbligatoriamente, sotto pena di peccato mortale. Inoltre, la devozione a Maria portò all’ufficio de Beata Virgine da recitarsi al sabato, e a concludere anche l’ufficio di ogni giorno con un’antifona in suo onore: la prima a essere imposta fu la Salve Regina prescritta da Gregorio ix (1227-1241) dopo la Compieta del venerdì. La diffusione del Libro delle OreInizialmente non esistevano testi per la lettura privata: nei cori delle cattedrali e dei monasteri stava un ampio leggio che reggeva un grosso volume con il libro dei Salmi ben visibile da tutti. Per rendere più facile la visione del Salmo o dell’antifona, si era soliti ingrandire le lettere iniziali e dipingerle a colori vivaci. Sorsero così quelle meravigliose opere d’arte che sono i codici miniati. Le altre parti dell’Ufficio, come le letture bibliche e le orazioni, non riguardavano tutta l’assemblea: era sufficiente che ci fosse un libro per il solo lettore o per chi presiedeva. Nessuno dei partecipanti alla preghiera delle Ore aveva dunque un proprio libro; né era possibile recitare le Ore fuori della comunità, dal momento che non si potevano avere gli strumenti necessari per farlo. Al di fuori dei conventi, invece, uno dei libri che non mancava mai presso tutte le famiglie che potevano permettersi di possedere volumi (una merce di gran valore) fu proprio il Libro delle Ore. Generalmente miniato, poteva diventare un oggetto d’arte ammirato e simbolo di grande prestigio. Ne sono una testimonianza, tra i tanti, quelli particolarmente notevoli detti di Torino, di Llanbeblig e il ferrarese Offiziolo dei Mesi (xiv secolo), il milanese Torriani, i due del Duca di Berry e quello di Simon de Varie, quelli spagnoli di papa Alessandro vi, dei Re Cattolici (xv secolo) e di Filippo ii (xvi secolo). Anche dopo la diffusione della stampa, i libri delle ore, personalizzati con raffinate miniature, rimasero come espressione di prestigio e di amore per l’arte. A fianco dell’edizione maggiore, con tutti i testi delle letture e dei salmi, già nel Medioevo si era diffuso una sintesi di essi: il breviario, un libretto che contenesse le parti essenziali dell’Ufficio. Infatti, con la nascita degli Ordini itineranti, come i Francescani e i Domenicani, era sorta anche la necessità di fornire questi frati di uno strumento facilmente trasportabile, non potendo ovviamente sobbarcarsi il peso dei voluminosi codici usati nel coro. Si chiamò dunque breviario quel libretto che conteneva in sintesi tutti gli elementi necessari per recitare le Ore di una determinata festa o di un ristretto spazio di tempo. Con il Concilio di Trento il breviario divenne un oggetto di uso quotidiano, inteso come testo, facilmente trasportabile, che però permetteva all’ecclesiastico di recitare l’Ufficio divino senza dover ricorrere ad altri volumi. Ogni ecclesiastico era obbligato ad averlo e a recitare le relative orazioni alle prescritte ore canoniche: venne così inteso, salvo poche eccezioni come i Vespri solenni, non come una pratica collettiva, bensì come una preghiera individuale. Dopo il Concilio di TrentoDopo alcuni fallimentari tentativi di riforma (in particolare di tipo linguistico, ma che nel periodo umanistico crearono più problemi di quanti ne volevano risolvere[22]) lo stesso Concilio di Trento, conscio dell’importanza di uno strumento come il breviario, lavorò ad una sua sistemazione che culminò – a cinque anni dalla chiusura dell’assise tridentina – con l’approvazione, da parte di papa San Pio v (1566-1572), della bolla Quod a Nobis (9 luglio 1568), una prima versione unificata per tutto il clero, detta anche Breviario Piano. Il fatto di aver mantenuto il nome breviario indica l’intenzione di conservare l’idea di una “celebrazione privata”, sancendola così ufficialmente. Nella bolla, il Pontefice enumerò tutti i motivi che lo indussero alla riforma e i principi a cui egli si era ispirato: come era avvenuto anche con la celebrazione eucaristica, molti vescovi e comunità con aggiunte proprie avevano mutilato o alterato l’insieme armonico dell’antico breviario, e così si trovava praticamente abolita quella santa comunione che consiste nel lodare e pregare Iddio con le stesse formule. San Pio v fissò gli obblighi e le proibizioni, e permise che fossero eccettuate le sole Chiese o comunità religiose che da almeno duecento anni si servivano di un breviario approvato dalla Santa Sede. Così la maggior parte degli ordini religiosi conservarono il loro proprio ufficio e la chiesa di Milano mantenne il suo rito ambrosiano.
L’ufficio diviene dunque uno strumento di pietà individuale ed il suo originale carattere liturgico cede il passo ad una visione devozionale, riservata prevalentemente al clero. Anche nei monasteri sono obbligati all’ufficio solo i monaci ordinati, mentre agli altri fratelli è riservata la recita – anche per semplicità – del Rosario o del Piccolo Ufficio della Beata Vergine o di quello dei Defunti. Non si ha più traccia neppure di quella presenza dei laici che invece fino alle soglie del Medioevo aveva caratterizzato soprattutto l’ufficio della cattedrale. Va detto che la recita delle Ore, breviario o non breviario, risulta, almeno in principio, abbastanza complessa (non solo per gli analfabeti): ne è dimostrazione che le regole del principale Ordine di monaci-guerrieri, quello dei Cavalieri gerosolimitani, prevedeva che tale liturgia potesse essere sostituita dalla recita – assai più semplice – di 150 Pater noster, oppure dal Piccolo Ufficio della Beata Vergine o da quello dei Defunti (obbligatorio quest’ultimo in caso di morte di un confratello)[24]. È comprensibile che tale scelta fosse stata fatta per superare la difficoltà di leggere nel corso di una giornata passata prevalentemente in ronde armate per difendere l’Ospedale di Gerusalemme, quindi sugli spalti della fortezza di Rodi e infine, sulle navi da guerra alla caccia di pirati islamici (le cosiddette carovane a cui erano tenuti tutti i Cavalieri di Malta). Le ultime modificheUna nuova riforma, già iniziata a livello di studio da Benedetto xiv (1740-1758), che non poté renderla effettiva, fu ripresa da Pio ix (1846-1878) nel 1856; nuovamente interrotta per le famigerate vicende risorgimentali, essa fu nuovamente recuperata alla fine del proprio pontificato da Leone xiii (1878-1903), che istituì nel 1902 una commissione per studi storico-liturgici annessa alla congregazione dei Riti e curò le edizioni tipiche dei libri liturgici. Una vera riforma fu attuata sotto S. Pio x (1903-1914), che con la bolla Divino afflatu del 1° novembre 1911 impose una modifica nella recita del Salterio[25] (una parte dell’attuale Breviario) in maniera da rendere ordinaria la lettura integrale dei Salmi nel corso di ogni settimana, modificando interamente la loro vecchia disposizione[26]: «furono tolte tutte le ripetizioni e fu data la possibilità di accordare il salterio feriale e il ciclo della lettura biblica con gli Uffici dei Santi. Inoltre l’Ufficio della domenica fu così accresciuto di grado e di importanza da essere generalmente anteposto alle feste dei Santi»[27]. Sotto Pio xii (1939-1958) la Sacra Congregazione dei Riti continuò la riforma di S. Pio x con un decreto con il quale si semplificarono le feste dei Santi[28]. La riforma liturgica successiva al Concilio Vaticano ii ha sostituito il Breviario con la Liturgia delle Ore, il cui testo completo è pubblicato in quattro distinti volumi (o cinque volumi, nel caso del rito ambrosiano), diversi per ogni periodo dell’anno liturgico: Avvento e Natale, Quaresima e Pasqua e due volumi per il Tempo ordinario. Il testo, e il relativo obbligo di sostituzione del Breviario, è stato promulgato da papa Paolo vi (1963-1978) con la costituzione apostolica Laudis canticum del 1º novembre 1970. Con il motu proprio Summorum Pontificum del 2007, Benedetto xvi (2005-viv.[29]) ha concesso ai “chierici costituiti in sacris” (sacerdoti e diaconi) il permesso di usare, invece del testo della Liturgia delle ore, quello del Breviario Romano promulgato nel 1962[30]. Tale permesso non riguarda i membri degli istituti di vita consacrata e delle società di vita apostolica che sono vincolati alla celebrazione della Liturgia delle Ore a norma delle proprie costituzioni[31], né riguarda le edizioni del Breviario Romano anteriori a quella del 1962, per esempio quella di S. Pio v del 1568. Attualmente il Breviario Romano è articolato nelle seguenti parti principali:
1. Proprio del Tempo (Proprium de Tempore): comprende le parti variabili in funzione del tempo liturgico; 2. Ordinario (Ordinarium divini Officii): comprende le parti fisse che si recitano identiche ogni giorno; 3. Salterio (Psalterium Breviarii Romani): comprende il ciclo di salmi che si ripete identico ogni settimana; 4. Proprio dei Santi (Proprium Sanctorum): comprende le parti variabili in funzione delle singole feste dei Santi; 5. Comune dei Santi (Commune Sanctorum): comprende le parti variabili relative alle feste dei Santi, ma che non si trovano nel Proprio dei Santi e sono accorpate per classi omogenee di Santi; 6. Comune dei Santi per alcuni luoghi (Commune Sanctorum pro aliquibus locis): di contenuto analogo al Comune dei Santi, ma riservato ad alcune diocesi.
La Liturgia Horarum (Typis Poliglottis Vaticanis, 1971) è invece, come detto, divisa in quattro tomi:
1. Tempus Adventus – Tempus Nativitatis; 2. Tempus Quadragesimae – Tempus Paschale; 3. Tempus per Annum – Hebdomadae i-xvii; 4. Tempus per Annum – Hebdomadae xviii-xxxiv. A mo’ di conclusioneRiscoprire la Liturgia delle Ore come “valido strumento per santificare il tempo”: è ciò che ha proposto l’allora arcivescovo ordinario militare per l’Italia, mons. Vincenzo Pelvi, oggi arcivescovo di Foggia-Bovino, nella sua lettera pastorale Educare alla santificazione del tempo:
Dopo aver sottolineato il grande frutto che si trae dalla leggera “fatica” di recitare la Liturgia delle ore, Mons. Pelvi sottolinea l’importanza che tale pratica riveste non solo per i sacerdoti, ma anche per i laici[33]:
Ed è anche il miglior modo per recuperare una mentalità tradizionale, dando al tempo “libero” non solo la funzione di riposo, ma anche quella di ricerca della salvezza, unicum necessarium della nostra esistenza terrena[35].
* Già Docente di Storia della Chiesa moderna e contemporanea presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Benevento (Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale). Cavaliere di Onore e Devozione del Sovrano Militare Ordine di Malta, Vicedelegato di Benevento. [1] Tutte le citazioni sono tratte dalla Bibbia della cei (seconda edizione (1974). Il corsivo delle citazioni bibliche è sempre mio. [2] Principi e norme per la Liturgia delle Ore, cap. 1, ii, 5. Il testo è allegato alla costituzione apostolica Laudis canticum di Paolo vi (1 novembre 1970) [3] «E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”» (Rom 8,15). «Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Rom 8,26-27). [4] «Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui». At 1,14. [5] La Didascalia apostolorum, anche nota come Insegnamento cattolico dei dodici apostoli e dei santi discepoli del nostro Salvatore, è un trattato cristiano appartenente all’insieme degli apocrifi del Nuovo Testamento. [6] Valentina Ragucci, “Didascalia apostolorum”: testo siriaco, traduzione italiana, sinossi e commento sulla formazione del testo, Tesi di Dottorato di ricerca, Ciclo xxiv, Università di Bologna 2009, p. 182 (capitolo xiii della Didascalia). [7] Ivi, p. 123 (capitolo iii della Didascalia). [8] «Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi». Ef 6,18. [9] «State attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso». Mc 13,33. [10] Pietro il Venerabile (1092-1156), abate di Cluny, Discorso I sulla Trasfigurazione, PL 189, 959. [11] Clemente Aurelio Prudenzio (348-410 ca.), poeta latino cristiano di nobile famiglia spagnola, esercitò a Roma l’avvocatura, raggiungendo alla corte di Teodosio una posizione di prestigio. In età matura si ritirò a vita privata per dedicarsi interamente alla poesia religiosa. [12] «Nel sec. iv la pace concessa alla Chiesa permette ai fedeli di accorrere liberamente a pregare nelle basiliche; d’altra parte lo sviluppo preso dal monachismo, che prega in comune alle ore di terza, sesta, nona, e celebra vigilie quotidiane (vigilie feriali), tende a rendere preghiera pubblica le ore suddette e quotidiani i notturni, soprattutto quando i monaci vengono ammessi ad assicurare il servizio eucologico divino nelle basiliche, per accrescerne lo splendore o per supplire al clero scarso o troppo impegnato nel ministero». Egidio Caspani, voce Breviario, in Enciclopedia Treccani, vol. vii, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1930. [13] Cfr. anche Mario Righetti, Manuale di storia liturgica, Àncora, Milano 2014, vol. iv (I Sacramenti), § 6. Gli ordini. I Vescovi. Origini e funzioni del vescovo: «Nella città episcopale c’è una sola chiesa, una sola cattedra, un solo altare, un solo sacrificio: quello del vescovo. Con questa disciplina si spiega l’origine della messa stazionale [cfr. sotto, nota 15] e, in un senso più stretto, il carattere peculiare che conserva ancora la messa del parroco, rappresentante del vescovo nelle comunità di fedeli più lontane. Ugualmente, quando l’espansione della cristianesimo nelle campagne obbligò il vescovo a stabilire in piccoli centri rurali sacerdoti e diaconi, la chiesa madre, in cui il vescovo aveva la sua cattedra, simbolo del suo sacerdozio e del suo magistero, continuò ad essere la casa paterna, centro dell’autorità e del culto. Il vescovo è sempre l’unico pastore, l’unico padre. È colui che stabilisce la nuova chiesa, che ne delimita i confini, la consacra, ordina il sacerdote, lo investe di determinati poteri, lo chiama frequentemente, assieme ad altri confratelli, nella città episcopale per le riunioni sinodali; realizza periodicamente la visita, guida e vigila con il ministero episcopale, ispeziona l’attività amministrativa». [14] Ippolito di Roma (attr.), Traditio apostolica, in Sources chrétiennes. La Tradition apostolique d’après les anciennes versions, a cura di Bernard Botte, Paris, Cerf, 1946, p. 27. Cfr. anche il Sacramentario Leoniano o Veronese, che parla di «culmine» del sacerdozio (Sacramentarium Veronense, a cura di Leo Cunibert Mohlberg, Leo Eizenhöfer, Petrus Siffrin, in Rerum ecclesiasticarum documenta, Series maior, Fontes 1, Herder, Roma 1956, p. 119. San Gregorio Magno nel suo Liber Sacramentorum (p. 225, riga 771) parla per la carica episcopale di «summi sacerdotii ministerium» (Patrologia Latina, a cura di Jacques-Paul Migne, Parigi 1862, vol. 78, col. 224). E, infine, la costituzione dogmatica Lumen gentium afferma: «Con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell’ordine, quella cioè che dalla consuetudine liturgica della Chiesa e dalla voce dei santi Padri viene chiamata sommo sacerdozio, realtà totale del sacro ministero» (LG, 21). [15] La messa stazionale è una celebrazione eucaristica celebrata tradizionalmente dal Papa con un numeroso seguito di vescovi, presbiteri, diaconi, suddiaconi, accoliti, cantori e con la partecipazione del popolo. Tale messa serviva da modello a tutte le altre, che la riproducevano con la massima esattezza, anche se erano celebrate con minore solennità con un numero minore di persone (fino alla messa bassa celebrata da un solo sacerdote). In origine la messa stazionale era l’unica messa festiva che si celebrava nella città di Roma, celebrata dal Papa. Con l’Editto di Milano, la crescita della comunità cristiana rese necessaria la celebrazione di più messe, cosicché papa Milziade (311-314) dispose che i sacerdoti dei diversi titoli potessero celebrare una messa nella propria basilica, dopo la messa stazionale. Tuttavia, per rimarcare l’unità della Chiesa, alle altre messe era inviata una parte dell’eucaristia consacrata nella messa stazionale. Tale uso decadde fra il x e l’xi secolo, ma ne rimane traccia nella messa tridentina solenne nell’omaggio reso dal suddiacono alla patena coperta dal velo omerale, come se contenesse le sacre specie provenienti dalla messa stazionale. Il Caeremoniale Episcoporum del 1984 definisce messa stazionale ogni messa pontificale celebrata da un vescovo nella sua diocesi. [16] Dal versetto di chiusura delle Ore («Divinum auxilium maneat semper nobiscum. | Et cum fratribus nostris absentibus») si può dedurre che non esisteva un obbligo per la partecipazione a questa preghiera, dal momento che la comunità prevedeva sempre un ricordo ai fratelli assenti, cioè impossibilitati a partecipare alla preghiera comune, evidentemente non solo per cause di salute, che doveva essere un impedimento piuttosto raro nel corso dell’anno. [17] Regola di San Benedetto, cap. xliii, 3. [18] Ibid. [19] Evagrio Pontico, De Oratione, i, 58. [20] L’inno più noto è il Gloria in excelsis. Storicamente importante anche quello scritto da Paolo Diacono († 797) per la natività di S. Giovanni Battista: Ut queant laxis, da cui Guido d’Arezzo prese i nomi delle note della scala musicale. Notevoli anche gli Inni attribuiti a Sant’Ambrogio per la recita delle ore: Aeterne rerum conditor (Matutino); Splendor paternae gloriae (Laudi); Iam surgit hora tertia (Ora terza domenicale); Nunc sancte nobis Spiritus (Ora terza feriale); Rector potens verax Deus (Ora sesta); Rerum, Deus, tenax vigor (Ora nona); Deus creator omnium (Vespri). [21] Tali monaci usavano nelle vigilie feriali 12 salmi (20 in quelle domenicali), un’orazione dopo ciascun salmo, l’alleluia dopo il 12°, due lezioni dalla Scrittura (Antico e Nuovo Testamento, di solito), orazione finale del superiore. Cfr. Egidio Caspani, voce Breviario, in Enciclopedia Treccani, cit. [22] «Il sorgere della critica storica e lo svilupparsi dell’umanesimo fece notare anche l’esistenza d’infondate leggende nelle letture agiografiche, e fece dispiacere lo stile non classico del latino del breviario. A ovviare a quest’ultimo difetto, Leone x (1513-1521) incaricò Zaccaria Ferreri vescovo di Guardialfiera (Campobasso) di correggere l’innario. La correzione fu un vero rifacimento e, se migliorava il latino, introduceva però troppi elementi pagani (famosa l’espressione Triforme Numen Olympi, per dire la Trinità). I nuovi inni usciti nel 1525 non furono però autorizzati da Clemente vii (1523-1534) per la recitazione pubblica dell’ufficio». Egidio Caspani, voce Breviario, in Enciclopedia Treccani, cit. [23] Giorgio Grente (Card.), Il pontefice delle grandi battaglie. San Pio v, Edizioni Paoline, Roma 1957, p. 189-190. [24] La Regola di Raymond du Puy, in Primi testi normativi degli Ospedalieri, edizione italiana a cura di Luigi Michele de Palma, Centro Studi Melitensi, Taranto 2016, p. 145. [25] Con il nome di salterio viene definita nel linguaggio biblico-liturgico l’organizzazione dei 150 Salmi da parte della Chiesa cattolica in uno schema settimanale, in maniera tale che nel corso della settimana si possano recitare tutti. [26] Cfr. Egidio Caspani, voce Breviario, in Enciclopedia Treccani, cit. [27] Paolo vi, Costituzione Apostolica Laudis Canticum (1° novembre 1970), Introduzione. [28] Decreto Cum hac nostra aetate del 23 marzo 1955. La riforma, che modificava le rubriche del Messale e del Breviario, non fu pubblicata negli aas [Acta Apostolicae Sedis] né stampata nei libri liturgici. [29] Emerito dal 2013. [30] Motu proprio Summorum Pontificum, art. 9, § 3. [31] Codice di diritto canonico, can. 1174, § 1. [32] Vincenzo Pelvi (Mons.), Educare alla santificazione del tempo. Lettera pastorale sulla Liturgia delle Ore, Avvento 2010. [33] Anni fa, un gruppo laicale di preghiera proponeva l’impegno quotidiano di una semplice posta di Rosario e di una breve visita al Santissimo Sacramento: respingere una richiesta così semplice (proporre un’intera cinquina di Rosario o una Messa quotidiana sarebbe stato oggettivamente ben più impegnativo) significava non volersi affatto impegnare in una vita di preghiera, anzi, rifiutarla. Molti di coloro che l’hanno iniziata, invece, hanno sperimentato in breve “l’innamoramento” per la preghiera, aggiungendo via via altre poste di Rosario per rendere più completa la loro spiritualità quotidiana. [34] Vincenzo Pelvi (Mons.), Educare alla santificazione del tempo, cit. [35] «Superiamo, così, quella mentalità riduttiva, per non dire avara, ancora piuttosto diffusa, circa il tempo da dedicare alla preghiera delle Ore. Ciò dipende anche dal significato che diamo al tempo, da non considerare solo come kronos, alternarsi dei giorni e delle notti o scorrere delle stagioni, ma da recepire per quello spessore e profondità di cui è impastata l’esistenza e che l’anima coglie. Il tempo è momento di salvezza (kairos), incontro tra Dio che si dona e l’uomo che aderisce a lui. La nostra eternità è “il frutto maturo del tempo; quando arriverà conterrà tutto ciò che noi eravamo e facevamo nel tempo”». Ibid. Il testo citato è: S. Agostino, Sermoni 169, 11, 13. |
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Modificado el ( sabato, 02 de dicembre de 2017 ) |
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