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LA SCALA DI GIACOBBE di Garcia Colombas OSB PDF Stampa E-mail
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lunedì 19 settembre 2016
scala giacobbeLa città di Dio è una, però consta di due parti anche troppo diverse: quella celestiale abitata dagli angeli e dai beati, e quella terrena, alla quale appartengono i cristiani tuttora pellegrini nel mondo presente. "Nella dimora degli angeli - dice Sant'Agostino - regnano piaceri ineffabili, l'immortalità e l'onesta, per dono e grazia di Dio, tutte le cose sono imperiture. Quella è la parte superiore. Sì, quella è la parte superiore, questa è la terrena, dove esistono carne e sangue, corruttibilità, nascita e morte, partenza e successione, mutabilità e incostanza, timori, ingordigia, orrori; dove le allegrie sono incerte, le speranze e i beni fugaci, penso che tutta questa parte non è paragonabile con il cielo che avevamo prima. ...
...Pertanto, se fra questa parte e quella non esiste paragone possibile, quella è la parte superiore e questa l'inferiore".[1]

 

LA NOSTALGIA DELLA CITTA’ DEGLI  ANGELI

 

Dal vivo sentimento di tali contrasti nasce nelle anime realmente religiose un incoercibile anelito, un continuo sospirare per la parte superiore della grande città, la parte migliore, la definitiva e permanente, l'unica in cui risiede la perfezione, la gloria divina si manifesta senza veli e gli angeli e i santi contemplano e lodano Dio per sempre. Come sperimentano tali anime il paradosso dell'esistenza attuale del cristiano? Appartiene alla città celestiale e continua ad abitare il mondo inferiore; abbonda di una vita divina e immortale, e continua partecipando alla vita animale e peritura, possedendo il diritto di vedere Dio faccia a faccia, avanza penosamente nelle tenebre della fede. Per questo, nonostante si trovi già nel Paradiso di Cristo che è la Chiesa, il cristiano fervente si sente esiliato ed anela alla piena realizzazione di questo Paradiso, che non è altra cosa che il Paradiso Celeste. "La vita presente è un confino e un luogo di esilio, per piacevole che sia, è un tormento per colui che sospira per la patria".[2]

La Chiesa stessa cerca di alimentare nei suoi figli questi sentimenti di nostalgia. Le orazioni liturgiche ci fanno chiedere continuamente il nostro distacco dalle cose visibili e terrene, e amare le invisibili, future ed eterne; che i nostri cuori ardino di desiderio per la patria celestiale; che con lo spirito viviamo già da adesso nella gloria del Paradiso escatologico. Persino con le attitudini della preghiera si inculcava nei tempi questa nostalgia del futuro ultraterreno. Come è risaputo, i fedeli dell'antichità solevano pregare voltati verso Oriente.[3] A tale comportamento si attribuirono con il passare dei secoli vari significati, però in varie epoche prevalse il simbolismo paradisiaco. Il Paradiso terreno era situato ad Oriente; per questo, voltarsi verso Oriente per pregare infondeva la nostalgia del Paradiso, ed era a sua volta una tacita supplica al Signore, nuovo Adamo, affinché conducesse la povera umanità esiliata al diletto giardino delle origini, o per meglio dire, al Paradiso escatologico, del quale il Paradiso terreno è simbolo.[4] Le Costituzioni Apostoliche testimoniano questa consuetudine e questo simbolismo nella liturgia eucaristica: "Alzandosi tutti e voltandosi verso Oriente pregando Dio [...] ricordandosi dell'antica dimora del Paradiso".[5] In base a quello che dice San Basilio, in virtù di una tradizione non scritta, i cristiani di un tempo si adattavano alla pratica di pregare in tale posizione, anche se pochi sapevano che in tal modo facevano capire di cercare l'antica patria, il giardino dell’Eden.[6] San Gregorio da  Nissa approfondiva questo simbolismo scrivendo che, come se Adamo rivivesse in ognuno di noi, supplicando, supplichiamo, ogni volta che ci giriamo verso Oriente, come il figliol prodigo della parabola: "Perdona i nostri debiti".[7] Quest’attitudine della preghiera cristiana sopravvisse molto tempo; San Tommaso d’Aquino già la conosceva.[8]

Innumerevoli sono le pagine della letteratura cristiana che si potrebbero citare come magnifica testimonianza di questa nostalgia della città degli angeli, di quella "città grande, spaziosa e celestiale", i cui i cittadini "godono della visione di Dio", giacché è Dio stesso lo spettacolo sempre nuovo che i beati contemplano.[9] Tali pagine ci rivelano anime che hanno trovato senza dubbio quello che cercavano, che abitano il Paradiso di Cristo, che già possiedono il diritto di cittadini del cielo; però con che ansia sperano e anelano che si aprano finalmente tutti i veli, e come ai santi angeli, si manifesti loro il volto beato di Dio! Celebri sono quelle frasi di Sant'Agostino: "Tardi ti amai splendore così antico e così nuovo, tardi ti amai! E vidi che tu eri dentro di me e io fuori, e fuori ti cercavo; e deforme come ero, buttavi su di me queste splendide cose che tu creasti. Tu eri con me, ma io non ero con te. Ritenevo lontane da te quelle cose che, se non erano in te, non esistevano. Chiamasti ed esigesti e rompesti la mia sordità, brillasti e risplendesti, e fugasti la mia cecità. Qual è il risultato di questa insigne grazia di Dio che viene incontro a chi non sa dove cercarlo, e gli va incontro e prende sulle sue spalle le povere anime? Continuiamo leggendo: "Esalo il tuo profumo e respiro" - prosegue Sant'Agostino - "e sospiro per te; ti voglio bene, ho fame e sete; toccami e abbracciami nella tua pace.[10] Incontrare Dio significa desiderarlo sempre di più, a perdersi nella sua immensità senza stancarsi mai di cercarlo.

Anche Sant’Anselmo di Canterbury, sulla soglia di una delle più elevate costruzioni teologiche, dà briglie sciolte al suo cuore e scrive un capitolo vibrante di nostalgia del cielo: "E adesso, o Signore mio Dio! Insegna al mio cuore dove e come ti deve cercare, dove e come ti troverà. Se non sei qui, o Signore! Se sei assente, dove t'incontrerò? Se sei ovunque, perché non ti vedo qui presente? Sì, abiti in una luce inaccessibile. Ma dove si trova questa luce inaccessibile? O come posso avvicinarmi a essa? Oh, chi mi guiderà e mi introdurrà in essa, perché da lì ti contempli? Per quali segnali, sotto quale forma ti cercherò? Non ti ho mai visto, Signore, Dio mio; non conosco il tuo volto. Che farà, Altissimo Signore, che farà questo tuo esiliato così lontano da te? Che farà il tuo servitore, ansioso del tuo amore e allontanato dalla tua presenza? Anela vederti, e il tuo volto è molto lontano da lui. Desidera avvicinarsi a te, ma la tua dimora è inaccessibile. Arde dal desiderio di incontrarti e ignora dove abiti. Non sospira che per te, e giammai ha visto il tuo viso. O Signore! Tu sei mio Dio e il mio Signore, e non ti ho visto mai. Tu mi creasti, tu mi hai concesso tutti i beni che possiedo, e nemmeno ti conosco. Finalmente sono stato creato per vederti, e tuttavia non ho raggiunto il fine per il quale fui creato". E prosegue Anselmo la sua lamentela sulla flebile sorte dell'uomo, fatto per vedere e possedere Dio e scomparso, lontano da lui, in questa valle di lacrime, cieco e freddo. “E tu Signore” - domanda il santo -fino a quando ci dimenticherai? Fino a quando il tuo viso sarà lontano da noi? Quando volgerai il tuo sguardo su di noi e ci ascolterai? Quando illuminerai i nostri occhi e ci mostrerai il tuo viso? Quando ritornerai a noi? Signori rivolgi verso di noi i tuoi occhi, ascoltaci, illuminaci, mostrati a noi”.[11]

 

LA CHIESA PELLEGRINA

 

Tali sono le intime, veementi aspirazioni delle anime innamorate di Dio. Però Dio non si mostra del tutto in questo mondo; non è questo il luogo della sua manifestazione. "Mentre abitiamo in questo corpo, il Signore è assente, perché camminiamo nella fede e non nella visione" (2 Cor. 5, 6). Mentre è in questo mondo, il cristiano è un viandante - homo viator, dicono i teologi -; nella parte inferiore della città di Dio, si cammina sempre, senza un momento di riposo, intorno alla parte superiore, dove abita Dio fra i suoi angeli sì, la Chiesa pellegrina avanza senza cessare dalla Gerusalemme terrestre verso la Gerusalemme celeste, dalla città dei giudei verso la città degli angeli, dal mondo al Padre. “Principio della chiesa nella Gerusalemme terrena” - dice Sant'Agostino - “per di là andare nella Gerusalemme celestiale e godere della presenza di Dio. In quella il suo principio; in questa il suo termine”.[12] Per questo non si può considerare come ultima meta la carriera soprannaturale dell'uomo della sua entrata nella chiesa; come fu definitiva la dimora di Adamo nel Paradiso terrestre, dopo aver superato la tentazione, fu permesso al primo uomo e a tutti i suoi posteri l'accesso alla vita celestiale. La vita celestiale è l'unico termine vero dopo il peccato originale. Il battesimo, in realtà, non rappresenta che una prima tappa, o meglio, il punto di partenza di un penoso e meraviglioso viaggio spirituale. Nel battesimo, in effetti, il cristiano riceve l'ordine di mettersi in cammino verso la patria celeste: “Israel [est] populus christianus, qui proficisci iubetur, ut ad futura contendat”.[13] Teodoro di Mopsuestia considera la vita del cristiano in questo mondo come il mero transito da una nascita ad un'altra nascita; la prima accade nel battesimo, la seconda nella risurrezione. Uscendo dalle acque rigeneratrici, non siamo più che un germe “non essendo nati tuttavia alla natura immortale, e che speriamo passare per la risurrezione [...]; però quando per la fede e la speranza di questi beni futuri ci riformiamo e modelliamo secondo i costumi cristiani [...] allora, secondo il decreto divino, dalla polvere riceveremo la seconda nascita e ci rivestiremo della natura immortale e incorruttibile, quando, secondo la felice espressione di San Paolo, Cristo, nostro Signore, trasformi il corpo della nostra viltà e lo faccia somigliante al suo corpo glorioso”.[14] Solo allora avranno piena realizzazione le promesse di Gesù Cristo e sarà evidente l'opera di Salvatore e delle nostre anime: “Quando si manifesta Cristo nella nostra vita, in tal caso vi manifesterete con lui nella gloria” (Col. 3,4).

Ma già da adesso dobbiamo avanzare fermi e decisi verso questa realtà suprema, verso questa perfezione ultima. San Paolo esorta tutti i rigenerati nelle acque battesimale quando scrive “Se foste risuscitati con Cristo, cerchereste le cose di sopra, dove c'è Cristo seduto alla destra di Dio” (Col. 3, 1). Non possiamo dimenticare neanche per un momento che siamo cittadini del cielo (Phil. 3.20) “Se siamo cittadini del cielo, piangiamo mentre avanziamo per questo cammino pieno di miserie, mentre siamo esiliati dalla patria”.[15] Se siamo cittadini del cielo corriamo verso la patria, anticipiamo il più possibile il nostro arrivo al Paradiso ultimo. “Ti senti angosciato sulla terra?”- domanda Sant'Agostino - “Emigra, abita già in cielo”. Dirai “Come posso vivere in cielo essendo, come uomo, vestito di carne mortale, dato alle opere della carne? Il tuo cuore preceda il tuo corpo nel luogo dove deve seguirlo. Non essere sordo: in alto i cuori! Eleva il tuo cuore, e nulla ti angoscerà in cielo”.[16]

Pellegrino fra la città degli uomini e la città degli angeli, il cristiano non vada girovagando di qua e di là in cerca di un cammino retto e sicuro. Cristo gli ha mostrato il cammino retto che conduce al Paradiso celestiale. Cristo stesso è il cammino (Io, 14.6). L'imitazione di Cristo, è andare dietro a Cristo, è il cammino reale del cristiano. “Seguiamo Cristo - esorta Sant'Ambrogio – “secondo quello che sta scritto: dietro al Signore tuo Dio devi andare e solo a lui ti devi avvicinare. A chi mi avvicinerei eccetto Cristo, secondo quello che dice San Paolo: Chi si avvicina al Signore diventa un solo spirito con il Suo? Andiamo, pure, sin dal deserto a seguire le sue urne, finché ci sia possibile entrare in Paradiso.”[17]

Non tutti i cristiani, sfortunatamente, vanno dietro al Signore. Adamo, nel Paradiso terrestre, fu messo alla prova; la prova dell'uomo nel Paradiso di Cristo che è la Chiesa consiste precisamente nel poter seguire Cristo, come è suo dovere, o non seguirlo. Si include tra le possibilità del cristiano quella di perdere la grazia santificante che gli fu comunicata nel battesimo; gode della libertà di preferire il male all'amicizia divina, di scegliere tra una vita animale che degrada e una vita angelica che lo nobilita. “Con l'uomo” - dice san Giovanni Crisostomo – “succede come i materiali grezzi: l'uomo è la materia; può convertirsi in angelo o in bestia". E il santo giustifica questo linguaggio con la Bibbia in mano: in alcuni passaggi del libro sacro leggiamo, in effetti, che certi uomini sono angeli – “È un angelo di Dio" dice Malachia (2, 7) - e in altri contesti si disprezza con nomi di animali – “serpenti, razza di vivere”, leggiamo, ad esempio, in San Matteo (12, 34) - di uomini evidentemente meritevoli di tali appellativi.[18]

E se per grazia di Dio, il battezzato decide di avanzare dietro di Cristo nel cammino della vita, può optare fra seguirlo da lontano, come lo seguiva tristemente San Pietro la notte del gran tradimento, o seguirlo da vicino, come fanno le anime fervorose. Se da lontano tuttavia si limita a non rompere del tutto il laccio che lo unisce a Dio, che è la grazia santificante; oppure cerca, come deve, la perfezione della vita cristiana, cerca di mostrarsi ogni giorno più degno dello Stato angelico nel quale è stato ristabilito per il battesimo e, con l'assistenza dello Spirito Santo, si sforza di riconquistare praticamente qualcosa dei favori concessi da Dio al primo uomo: il dominio perfetto sulle passioni, il distacco dalle cose terrene, la castità, un grado eminente di conoscenza di Dio e delle cose divine. Questo fa la differenza tra i cristiani tiepidi e quelli che non si accontentano di entrare in Paradiso e rimanere vicino alla porta, senza cercare di penetrare in profondità nei suoi misteri, seguendo le orme del Signore e mettersi sotto il suo manto. Gli uni sono i giusti; gli altri sono i perfetti. “I perfetti” - scrive Evagrio Pontico – “arrivano a Sion e alla Gerusalemme celeste e al Paradiso spirituale; i giusti seguono con gran pena più indietro e si trovano molto più giù dei perfetti”.[19] Questa distinzione spiega e giustifica l'esistenza della vita monastica, della vita religiosa, nel seno della Chiesa di Cristo. Il religioso non è, e non vuole essere, altra cosa che un cristiano che, per professione, si impegna a seguire Cristo da vicino, a cercare la perfezione della carità proposta a tutti dal Signore. Il religioso rinuncia, con i suoi voti, a quanto potrebbe opporsi a tale perfezione e si tiene fermo in questo modo in uno “stato”, il quale a dispetto del suo nome, comporta essenzialmente movimento, dinamismo incessante: la “immobilitas sequelae Christi”, secondo la formula ammirevole e intraducibile forgiata dal Dottor Angelico.[20]

Il religioso segue continuamente Cristo. Per questo non vi è nulla di strano che l'espressione “vita angelica”, che include evidentemente il senso della perfezione, sia stato applicato per ultimo, in Oriente, alla vita monastica in un modo così esclusivo, che ambo le espressioni sono riuscite a convertirsi in sinonimi. “Vi erano lì molti padri che conducevano vita angelica e camminavano a imitazione di nostro Signore Gesù Cristo”, come scriveva già un autore antico per dare un'idea generale delle osservanze dei solitari d'Egitto.[21] E Ambrogio Autperto, monaco e teologo, segnala con molta precisione il luogo corrispondente al monachesimo dentro il piano del redentore nello scrivere, dopo aver ricordato l’incarnazione del figlio di Dio: “Vivendo [Cristo] fra gli uomini come uno di loro in tutte le cose, eccetto nel peccato, mostrò il cammino attraverso il quale sarebbe possibile ritornare ai piaceri perduti [del Paradiso]. E se ci preme il desiderio di sapere quale è questo cammino, ascoltiamo quello che dice il Signore nel Vangelo: “Io sono la via, e nulla viene al Padre se non attraverso me” (Io 14,6). Abbiamo udito quale è la via per ritornare alla patria. Vediamo ora come avanzare per questa via. Dice san Giovanni: chi afferma di appartenere a Cristo deve andare com’egli andava (I Io, 2,6). Consideriamo, perché, quali sono le sue orme, quali i passi che diede Cristo nella carne per noialtri. Omettendo il troppo, che si trova esattamente narrato nei Vangeli, fu dal battesimo alla tentazione e al digiuno, dal digiuno alla predicazione, dalla predicazione all'infamia, dall'infamia alla flagellazione, dalla flagellazione agli sputi, dagli sputi alla croce, dalla croce al sepolcro: tali furono i passi di Dio sulla terra. […] Questi passi non si fanno per il sentiero angusto che conduce alla vita. Questi passaggi conculcano l'aspide e l’iguana e schiacciano il leone e il dragone. Tra questi passaggi arrivarono gli apostoli. I martiri e i confessori seguirono tali orme. Dietro queste tracce camminarono i monaci perfetti, ai quali si riferisce specialmente il Signore quando dice: "Prendete su di voi il mio giogo, e imparate da me, che sono mansueto e umile di cuore, e troverete riposo per le vostre anime".[22] Le citazioni sono state lunghe, però esprimono ammirevolmente in questo passaggio quello che è la vita monastica: la vita del cristiano impiegata totalmente ed esclusivamente a seguire da vicino le orme del Signore e degli apostoli, i martiri e i confessori che precedettero i monaci in questo sentiero angusto e difficoltoso. Per questo, perché è essenzialmente cammino, gli antichi concepivano la vita monastica non quale realtà statica, bensì come qualcosa di essenzialmente dinamico, qual è una professione che obbliga i suoi seguaci ad un progresso costante o almeno ad uno sforzo ininterrotto nel conseguimento della perfezione angelica. Dice bene un autore moderno, che il monastero degno di questo nome si presenta come "l'avanguardia della Chiesa pellegrina in marcia verso il cielo".[23]

 

LA SCALA DEL PARADISO

 

L'immagine del cammino è stata usata innumerevoli volte dagli autori spirituali nel descrivere la vita dei cristiani in questo mondo. E questo dagli inizi stessi della Chiesa. Già nell'Epistola agli Ebrei la vita del cristiano appare come un viaggio di ritorno al suo vero focolare, “il riposo” di Dio nella terra promessa, viaggio che fa a testa bassa la guida di Cristo, nuovo Mosè del nuovo popolo scelto. Questo tema ottenne grande esito. Mille volte già sviluppato con dovizia di particolari. Così, ad esempio, San Gregorio Magno considera che i Magi vogliono darci ad intendere qualcosa di importante di ritorno al loro paese da una strada diversa da quella che li aveva condotti a Gesù; e prendendo come occasione questo dettaglio del Vangelo, dice ai suoi fedeli di Roma che la nostra patria è il Paradiso e che, dopo aver conosciuto il Signore, ci è proibito ritornare a essa nello stesso cammino: "Ci allontaniamo dalla nostra patria diventando superbi, disobbedienti, andando dietro le cose visibili, assaporando il frutto proibito; è necessario tornare ad essa piangendo, obbedendo, disprezzando le cose visibili e frenando l'appetito della carne".[24] Vi è qui un compendioso programma di vita cristiana considerata come viaggio di ritorno al Paradiso. Fra gli autori che hanno sviluppato il tema dell'esodo brilla quale stella di prima grandezza Origene, il celebre maestro alessandrino che, nelle sue opere esegetiche[25] descrive minuziosamente l'itinerario dell'anima dietro l'idea della perfezione cristiana. L’uscita dall'Egitto, il passaggio del mar Rosso, le diverse tappe degli israeliti nel deserto, l'entrata nella terra promessa, in una parola, l'intera narrazione biblica si converte in una grande allegoria del progresso dell'anima: la sua liberazione dalla tirannia che su di essa esercitavano il mondo e la carne, la sua lotta vittoriosa contro gli attacchi delle potenze infernali, la sua graduale penetrazione nella vita spirituale e nell'intimità di Dio.

Però l'esistenza dell’homo viator è paragonabile, più che ad un cammino piano, ad una continua ascensione. La meta del cristiano è molto in alto, ed è necessario salire senza tregua per raggiungerla. Il Paradiso terrestre, come afferma la tradizione, si trovava situato in un posto molto elevato. Sant'Ambrogio per esempio, parla di un posto "sublime e celestiale"[26], e San Gregorio da Nissa descrive la separazione fra gli angeli e gli uomini, frutto del primo peccato, come una caduta dell'umanità.[27] Il Paradiso celestiale, simbolizzato come inizio e fine delle speranze dell'uomo redento, si trova tuttavia più sopra, ed è evidente che fra la vita terrena e la vita celestiale, come fra la resurrezione del Signore e la sua elevazione alla destra del Dio Padre, deve mediare un’ascensione. Da ciò deriva che, nel descrivere il progresso dell'anima abbiamo fatto ricorso con frequenza agli autori, all'immagine della scala. Alcune opere di spiritualità portano incluso il titolo di Scala; ricordiamo ad esempio la celebre Scala Paradisi di San Giovanni Climaco.

Com'e risaputo, la figura della scala è stata presa dalla Bibbia. Giacobbe dice  - si legge nella Genesi (28, 12-13) - “Fece un sogno e vide una scala che, appoggiandosi sulla terra, toccava con la testa i cieli e che per essa salivano e scendevano gli angeli di Dio. In cima c'era Dio". Questo passaggio biblico è stato interpretato secondo tutti i sensi che gli antichi discernevano nella Scrittura; letterale, allegorico simbolico, tropologico, anagogico.[28] È comprensibile che la misteriosa scala, popolata di angeli e strumento d'unione fra il cielo e la terra, stimolava tanto gli interessi dei padri e degli espositori e autori asceti posteriori. Non manca, naturalmente, chi vedeva in essa il simbolo dell'ascensione spirituale. Così per esempio in questo passaggio biblico era presente senza dubbio lo spirito di Sant’Orsiesio quando esortava i suoi fratelli di vita cenobitica a considerare le tradizioni del suo comune padre San Pacomio, come una scala che conduce al regno dei cieli.[29] Per San Gregorio da Nisida la scala di Giacobbe è l'immagine del progresso dell'anima attraverso il sentiero della contemplazione di Dio.[30] Ai lati della scala Evagrio Pontico scopre le due teorie della vita spirituale: quella della purezza di cuore e quella della contemplazione, che, come risaputo, sono tradizionalmente le due grandi divisioni o aspetti dell'ascensione dell'anima verso Dio.[31]

Anche gli angeli che salivano e scendevano per la misteriosa scala sono stati oggetto di molte e varie interpretazioni lungo la tradizione dei Padri. Questo doppio movimento ascendente e discendente ha suggerito l'idea di progresso-salita o retrocessione-discesa- della vita dello spirito. Tale è, ad esempio, l'esegesi di San Geronimo[32] e di San Zenone da Verona.[33] Particolarmente interessante a proposito è l'interpretazione del vescovo siriano Filosseno di Mabbug. Secondo lui è chiaro che gli angeli che scendono sono realmente spiriti celesti, il posto della loro dimora è sopra, ma quelli che salgono non possono  che raffigurare uomini, la cui regione è sotto. Solo quelli che sono sopra possono scendere, e solo quelli che stanno sotto possono salire. Ecco qui come si spiega Mar Filosseno: "Questa scala non apparteneva solo agli angeli celestiali, ma in base al testo della Bibbia, per il fatto che gli angeli salivano e scendevano per quella, si indica che l'uomo che si avvicina ai suoi piedi e inizia a salire gradino dopo gradino, è iscritto all'ordine degli angeli e contato fra gli spirituali". Questa persona, poiché “si iscrive volontariamente nell'esercito di Cristo e serve alla corte degli spirituali, cambia il suo nome di uomo con quello di angelo, secondo la testimonianza della Bibbia; e a ragione, dato che è obbligato a ricevere il nome degli angeli, dal momento che ha cominciato a servire con gli angeli, invece che uomo lo si chiama angelo in ragione del suo servizio e della sua regola, e non a causa della sua natura”.[34] La salita per la scala di Giacobbe, cioè, per la scala delle virtù è, secondo Filosseno di Mabbug quello che fa vivere gli uomini come gli angeli; la vita angelica consiste, in fin dei conti, nell’applicarsi alla vita dello spirito. La scala di Giacobbe, come tutte le scale, era composta di gradini. Molti sono i padri che si servono di quest’immagine per far risultare la gradualità delle virtù, le quali, come la scala angelica, conducono fino all'alto dei cieli le anime che ad esse si votano.[35]

Altri padri hanno contato e classificato i gradini della scala. Quindici sono quelli che le attribuisce San Geronimo, dei quali i primi, egli dice essere il digiuno e la rinuncia al mondo;[36] poiché come assicura il santo in altre sue opere, “seguendo nudo la nuda croce, salirai la scala di Giacobbe più leggero e libero”.[37] Da parte sua San Giovanni Climaco divide la sua classica Scala Paradisi in trenta capitoli, corrispondenti ad altrettanti gradini e ai 30 anni che secondo lui visse Gesù Cristo in questo mondo; il quale indica bene che seguire Gesù Cristo è quello che ci conduce al cielo; il primo gradino consiste nella rinuncia alla vita mondana, corrispondendo i seguenti a diverse virtù e vizi e trattandosi in ultimo della “illuminazione”, massimo anelito degli asceti d'Oriente.

 

I GRADI DELL'UMILTÀ

 

Pochi libri spirituali avranno raggiunto, nell'Oriente cristiano, l'enorme diffusione, l'influenza incalcolabile della Scala Paradisi; il libro di San Giovanni Climaco divulgò all'immagine della scala in quelle regioni. In Occidente, invece, nessuna interpretazione retorica della scala di Giacobbe è stata più conosciuta oltre quella esposta nel celebre capitolo settimo della regola di San Benito, De humilitate.

Ci sconcerta non poco il patriarca di Cassino quando scrive: "Se vogliamo raggiungere la cima della più alta umiltà e vogliamo raggiungere velocemente quella celestiale esaltazione alla quale si ascende per l'umiltà della vita presente, è necessario erigere con le nostre azioni ascendenti quella scala che apparve in sogno a Giacobbe, dove si vedeva che scendevano e salivano angeli. Senza dubbio non intendiamo altro in questo salire e scendere, che per l'esaltazione si scende e per l'umiltà si ascende. Riguardo alla stessa scala così eretta, essa rappresenta la nostra vita nel mondo, poiché nella misura in cui si umilia il cuore, ci si eleva al Signore fino al cielo. I lati di essa diciamo che sono il nostro corpo e la nostra anima, lati sui quali la vocazione divina ha disposto diversi gradi di umiltà e ascetismo per i quali dobbiamo salire”.[38] Risulta, secondo questo, che per l'umiltà si sale, il che appare una proposta paradossale, un’evidente contraditio in terminis. Umiltà deriva da humus, terra, e la terra non è sopra, bensì sotto; umiltà è bassezza, pochezza; l'umiltà implica conoscenza e riconoscenza della propria inferiorità e indegnità. Ciononostante, l'idea di San Benito non è nuova; è un'idea evangelica. Il Signore aveva detto: “Tutto quello che si esalterà, sarà umiliato, e quello si umilierà sarà esaltato” (Luca 14, 11). Da lì si deduce che, essendo le parole divine inevitabili, per l'umiltà saliamo, siamo lodati; e San Gregorio da Nisida può dire che l'umiltà è “una discesa verso l'alto dei cieli”, così come l'orgoglio è una salita verso le profondità.[39] È questo in verità uno dei tanti paradossi, o per meglio dire, misteri della vita cristiana che disorientano l'uomo mondano e fanno sorridere i moderni razionalisti, ma che le anime mistiche provano vivamente. Simeone, il nuovo teologo, ad esempio, dava conto che “si sale nella deificazione seguendo il cammino discendente”.[40] Per salire al Paradiso celestiale è necessario scalare le cime dell’umiltà. In questa prospettiva, così diametralmente opposta agli ideali del mondo, conforme agli insegnamenti evangelici, e la più pura tradizione cristiana, è legittimo interpretare allegoricamente la scala di Giacobbe alla maniera di San Benito.

È necessario aggiungere in seguito che il santo legislatore non dà al vocabolo “umiltà” il senso stretto e preciso che nei tempi moderni siamo abituati a dargli, ma lo considera come una “virtù generale, madre e maestra di tutte le virtù”, come “l'attitudine che la nostra anima abitualmente adotta al cospetto di Dio, davanti a se stessa, davanti a tutto”.[41] Assimilandola a disciplina, proprio San Benito viene a dirci, inoltre che l'umiltà riassume tutto l’ascetismo del monaco.

Questo apparirà più chiaro se diamo una rapida occhiata ai gradi dell'umiltà che la regola benedettina distingue nella scala di Giacobbe.

Dodici sono i gradini che conducono alla vetta della “più alta umiltà”, la quale, nella mente del santo, s’identifica più o meno con la vetta della perfezione monastica, e quindi della perfezione semplicemente cristiana.

Inutilmente si cercherà in questi gradi la rigorosa successione cronologica; sembra di scoprire nella sua esposizione una certa concatenazione logica, poiché li vediamo raggruppati secondo come si relazionano specialmente con la volontà, l'intelligenza o la condotta esterna. In realtà i gradi costituiscono tante altre virtù o aspetti di esse cui il monaco deve approcciarsi. Il primo consiste nel tenere abitualmente presente nella memoria l'idea che Dio è tutto e noialtri niente; tale convinzione produrrà nell'uomo il timore di Dio, il sentimento di trovarsi costantemente alla presenza di Dio, il totale abbandono alla volontà di Dio. Per fare la volontà divina, l'uomo deve rinunciare alla propria; tale è l'esercizio peculiare del secondo grado di umiltà. Nel terzo, avanzando di un passo, il fedele si deve sottomettere al superiore, rappresentante di Dio, “con un'ubbidienza senza limiti”.[42] Il quarto grado richiede al religioso che “nelle cose dure e contraddittorie e davanti a qualsivoglia ingiurie che gli vengono inferte, si stringa silenziosamente nel suo interno con pazienza, e sopportando tutto, non si stanchi e non desista”.[43] Il quinto grado impone che egli manifesterà al suo abate tutti i “cattivi pensieri che giungono al suo cuore e il male commesso di nascosto”.[44] Il quarto ed il quinto grado sono molto difficoltosi per le deboli forze dell'umana natura, però conducono il monaco direttamente alla vittoria su se stesso. Il legislatore, con tutto ciò non si dà ancora per soddisfatto; il monaco tuttavia non ha raggiunto la cima dell'umiltà o, secondo il vocabolario benedettino, non si è arrampicato fino all'alto della sua cima.

Così nel sesto grado, dovrà essere “contento di tutta l’infamia e il disprezzo”; e ancora “per tutto quello che gli sarà ordinato” dovrà giudicarsi “servo cattivo e indegno”.[45] E per il settimo grado, si proclamerà “l’ultimo e più vile di tutti”, purché lo pensi realmente, “con l’intimo sentimento del cuore”.[46] La scala angelica tuttavia non termina qui.  Se fino a qui l’umiltà è andata radicandosi soprattutto nell’anima, nei gradi successivi si manifesterà esteriormente. In base all’ottavo grado, in effetti, il religioso non farà niente che non sia d’accordo con la regola comune del monastero e l’esempio degli anziani; secondo il nono grado non parlerà finché non sarà interrogato; si asterrà dal ridere, salvo rare volte e con moderazione, in conformità col decimo; si esprimerà con delicatezza, umiltà e serietà quando si vede obbligato a parlare, chiede il grado undicesimo, e nel dodicesimo dimostrerà umiltà, sempre e dovunque, col suo modo di fare esterno “con la testa inclinata, gli occhi fissi a terra”.[47] “Nulla lo dispera. La salita è ardua e faticosa e la disperazione comincia a farsi sentire. Oh uomo non disperarti! Sopra, nel grado quindicesimo, si trova il Signore che ti sta guardando e prestando aiuto! Se tuttavia vai incontro al primo grado, non guardare gli altri gradi: guarda si al Signore.” Così San Geronimo esorta il frate, il quale già aveva detto - la scala angelica consta di quindici gradini.[48] San Benito ci segnala la presenza del Signore nel dodicesimo e ultimo grado dell’umiltà: secondo il santo, durante la penosa salita, il Signore avanza con i monaci, o meglio i frati accompagnano Cristo fino al più profondo della sua umiliazione sino al Golgota e alla morte crudele sull’albero della croce. I momenti più dolorosi di questa autentica Via Crucis, quelli che più ripugnano la natura, sono semplicemente tante altre modalità dell’imitazione di Cristo. E di questa sorte i monaci mettono in opera, nel secondo grado, quello che dice di se stesso il Signore: “Non sono venuto a fare la mia volontà, bensì la volontà di Colui che mi ha inviato”;[49] e nel terzo, seguono da vicino Gesù Cristo dove scrive l’apostolo: “Obbediente fino alla morte”;[50] e nel quarto, il grado delle ingiurie e delle infamie, ricordando quello che il Signore soffrì per loro, essi gli dicono “Nella persona di quelli che soffrono: per te abbiamo sofferto la morte tutti i giorni, come pecorelle destinate al coltello. Però sicuri nella speranza della divina ricompensa, proseguono gioiosi e dicono: ma in tutte queste cose trionfiamo per Colui che ci ha amati”.[51]

Si, il frate segue Cristo fino al più profondo del suo abbattimento; vuota con Cristo l’amaro calice del dolore; sale con Cristo al Golgota; e con Cristo è inchiodato sulla croce. Il patriarca di Montecassino pone sulle labbra dei suoi figli frasi davvero tremende: “Fui ridotto a niente; come un somaro venuto alla tua presenza, sempre più sono con te”.[52] Questo non è abbastanza: “Io sono un verme e non un uomo; obbrobrio degli uomini e rifiuto della plebe.”[53] E finalmente: “Ecco totalmente abbattuto ed umiliato”.[54] Non può scendere di più, l’annientamento è completo. Pertanto ci troviamo, secondo il linguaggio di San Benito, sulla cima più alta “della più alta umiltà”.

 

 

IL PROFONDO SENSO DELLA SCALA

 

In effetti, immediatamente dopo quest’ultimo testo, la regola monastica aggiunge: “Saliti finalmente tutti questi gradini di umiltà, il frate arriverà a seguire quella carità di Dio che, essendo perfetta, esclude ogni timore; per essa tutto quello che prima osservava non senza diffidenza, ora comincerà a custodirlo senza troppa fatica e per abitudine; non già per timore dell’inferno, ma per amore di Cristo, per una santa abitudine e per il diletto delle virtù. Per il quale il Signore si degnerà di manifestarsi mediante lo Spirito Santo sul suo operaio purificato dai vizi e dai peccati”. [55] La cima dell’umiltà è allo stesso tempo la cima della carità e della perfezione evangelica. Ecco qui il termine gioioso, magnifico, dell’ascetismo cristiano.

Il mondo non capisce gli asceti, gli uomini devoti specialmente, nel corpo e nell’anima, alla ricerca della perfezione cristiana; li guarda con indifferenza, al massimo con una certa compassione ironica, quando non beffa apertamente la loro rinuncia, la loro austerità, all’ombra dolorosa che la croce di Cristo proietta su di loro. E il mondo ignora che dietro la Croce di Cristo e quanto di penoso essa significhi, c’è la resurrezione trionfante, l’ascensione gloriosa, il Paradiso del cielo. Lo proclama il commovente parallelismo che c’è fra il settimo capitolo della Regola benedettina che abbiamo finito di percorrere, e il passaggio di San Paolo che la liturgia romana legge durante la messa della Domenica delle Palme all’inizio della Settimana Santa, che serve come un grande preludio. Scrive l’Apostolo ai Filippesi (2, 5-11) e la Chiesa lo ripete a tutti i cristiani: “Abbiate gli stessi sentimenti che ebbe Gesù Cristo, al contrario di Adamo che, essendo creatura di Dio, pretese diventare uguale a Lui – prima si smarrì – e qui l’incredibile - prendendo la forma di servo e diventando simile ali uomini”. Però non è tutto; la discesa del Verbo non termina qui, nell’Incarnazione. In effetti S. Paolo prosegue: “E nella condizione di uomo si umiliò diventando obbediente fino alla morte, e alla morte di croce”. Questo si è il fondo dell’abisso; questo si è il grado massimo della divinità. È impossibile abbassarsi di più. L’umiltà e l’obbedienza sono state portate fino all’estremo possibile: “Sino alla morte e alla morte di croce”. La crocifissione dell’uomo vecchio, di cui parla l’apostolo al suo tempo, e della resurrezione[56] è uno dei temi più frequenti della spiritualità monastica.[57] Anche il monaco che sale la scala dell’umiltà scende nel più profondo dell’abisso: è stato totalmente annientato ed umiliato, però a questo punto del massimo smarrimento, della totale umiliazione, si ha l’origine del più eccelso trionfo. Si sentirà di nuovo l’altissima sapienza dell’apostolo: “Per il fatto che Cristo si umiliò fino alla morte in croce” – “Dio lo esaltò e gli diede un nome che è al di sopra di ogni altro nome, affinché al nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre”. Per il monaco, come per Cristo, di cui segue le orme, verrà la crocifissione, la resurrezione trasfigurante; quanto più i monaci vuotano con Gesù Cristo sofferente il calice del dolore, tanto più si darà loro a bere il calice della gloria. “Morte e resurrezione. La morte è vinta nella stessa morte. Nella stessa umiliazione si ottiene esaltazione. Anche a noialtri la croce apre la porta del cielo”.[58]

L’ascetismo conduce ad una morte mistica – mors adumbrata – “poiché allontana e separa l’anima dai moti della carne”.[59] Anche all’asceta si applica la frase dell’Epistola agli Ebrei (9,22): “Non c’è remissione senza effusione di sangue”. Questa morte mistica, come la morte, va preceduta da un’agonia. Morte ed agonia sono concetti che ripugnano profondamente la nostra natura umana, ma sono condizioni indispensabili per addentrarci nel Paradiso della vita cristiana. Davanti alla porta ci sono i terribili cherubini e l’ignea spada. Si deve provare la lama della spada; si deve sentir bruciare dal fuoco purificatore. “E’ necessario che sia provato dal fuoco chi desidera entrare in Paradiso”. [60] La morte del Salvatore ci ha aperto il Paradiso, però è necessario morire con Cristo se vogliamo entrare in esso. Riferendosi al martirio Tertulliano scrive: “Il tuo sangue ti aprirà il Paradiso”;[61] e si chiede all’asceta se vuole realmente arrivare alla sommità della perfezione cristiana. Per questo è necessario stabilire una certa equivalenza tra il monaco e il martire[62] o, come dice San Giovanni Damasceno, tra “quelli che patirono il martirio e quelli che per le loro abitudini religiose, imitarono il genere di vita degli angeli”.[63] Entrambi, l’asceta e il martire, danno la loro vita – l’uno in un momento, e l’altro lentamente, giorno dopo giorno per amore di Dio e per avvicinarsi a Dio, e in questa generosa consegna di quanto possiedono e possono possedere, di quanto sono e possono essere, consiste la purificazione, indispensabile per avere accesso al Paradiso celestiale. Si deve abbracciare la croce; farsi violenza. “La croce di Cristo è la chiave del Paradiso; la croce di Cristo apre il Paradiso”. E aggiunge S. Geronimo: “Non ha detto [il Signore] che il regno dei cieli comporta violenza e i coraggiosi la sopportano? Non è impavido che rimane in croce? Non ci sono mezzi termini: la croce e in seguito il Paradiso”.[64] Questa è la dottrina dei Padri, la gran voce della tradizione cattolica. Non c’è un vero cristianesimo senza croce, senza violenza, senza sofferenza, senza lacrime. Però nella misura in cui si soffre e piange, si sale la scala di Giacobbe – simbolo dell’ascetismo e della purificazione che ci trasfigura e ci rende simili agli angeli – il mondo e quanto esso contiene diventa piccolo, arriva ad essere ridicolamente minuscolo, nello stesso tempo in cui ci avviciniamo al cielo. E si vanno realizzando queste cose magnifiche che S. Benito mette alla fine del capitolo De Humilitate: la carità di Dio inonda l’anima, la virtù diventa connaturale all’uomo e, dice il santo in un altro passaggio, “dilatato il cuore, si corre con inenarrabile dolcezza di carità, per il cammino dei comandamenti di Dio”.[65]  Queste realtà ammirevoli e desiderabili “il Signore si degnerà di manifestare mediante lo Spirito Santo sul suo operaio già purificato dai vizi e dai peccati”;[66] allusione diretta alla vita mistica della grazia, che ispira ad un moderno commentatore questa pertinente affermazione: “Il capitolo settimo, dell’umiltà, è per noi il capitolo della teoria, ma nel senso antico del vocabolo questo è della contemplazione”.[67] La morte perfetta al mondo e alle sue cose consiste precisamente nella contemplazione; essa spezza l’ultima corda che assoggetta l’anima al porto delle cose visibili, permettendole di addentrarsi, senza alcun collegamento che la ostacoli, nell’abbondanza infinita delle cose invisibili.[68]

“L’umiltà costituisce il principio della salita della scala; la carità quando è perfetta (…) permette che essa si appoggi ai pascoli eterni e puri della beatitudine di Dio, del coro degli angeli e dell’unione con Dio” già adesso in questa vita presente.[69] In realtà non è necessario che l’uomo abbia coronato le cime della perfezione cristiana per poter affermare che conduce vita angelica. Già resta detto, secondo Filosseno di Mabbug, che colui che incomincia a salire per la scala di Giacobbe “è inscritto nell’ordine degli angeli”.[70]

Però è evidente che quanto più sale, tanto più ci si avvicina alla realizzazione dell'ideale della vita angelica. Sant'Agostino dice: "Rinuncia a te stesso o uomo! Per convertirti in angelo".[71] La vita angelica va acquisendo realtà ogni volta maggiori nella misura in cui si avanza alla propria rinuncia, nell’ascetismo che ci spoglia dell'uomo vecchio. La vita angelica degli uomini è, in fin dei conti, opera dello Spirito Santo;[72] però Dio chiede la loro collaborazione e promette loro la vita angelica come premio della loro virtù.[73] La virtù, i buoni costumi, sono come ali che ci portano nel più alto dei cieli e ci introducono nelle delizie del Paradiso.[74] Lì nel paradiso celestiale, è dove la vita angelica degli uomini raggiunge tutta la sua pienezza; adesso e nel tempo il daffare di quelli che desiderano e cercano la perfezione, consiste nell’avvicinarsi progressivamente a questo ideale sublime. È il concetto espresso da Pedro di Celle, nel comparare il monastero ad una madre nel cui seno i religiosi vanno acquisendo i tratti che li faranno somiglianti agli spiriti celesti: "Quali sono questi tratti? La purezza angelica, la limpidezza, la castità, la carità, la pace, la verità e tutte quelle virtù nelle quali si dice: benedica il Signore tutte le vostre virtù. Pregare perché quello che creò in cielo, non trasformi la sua immagine nel monastero".[75]

San Romualdo vide una scala, uno degli estremi poggiava sulla terra mentre l'estremo superiore arrivava fino in cielo; e per questa scala saliva una moltitudine di monaci, vestiti di bianco. Fu questa visione, secondo quanto racconta la leggenda, la prima origine del monastero di Camaldoli e di tutto l'ordine camaldolense.[76]

Questo è il senso profondo della scala di Giacobbe, considerata come la scala dell'umiltà e dell’ascetismo. Gli angeli della visione originale si sono convertiti in monaci in quella di San Romualdo. In monaci, i cristiani che, inseguendo l'ideale della perfezione angelica, salgono la ripida scala, si vanno trasformando secondo il modello degli spiriti celesti, vivono già la vita angelica.

 

 

 


[1] S. Agostino, Enarr. In Ps. (Salmi) 85, 17.

[2] S. Gregorio Magno, Epist. 9, 217.

[3] Questa consuetudine era conosciuta a anche dai pagani, i quali orientavano i loro templi verso Oriente molto frequentemente. Confronta ad esempio Clemente di Alessandria, Stromata, 7.

[4] Confronta Pseudo-Attanasio, Quaestiones ad Antiochium ducem, 38 (P.G. 28,619620); S. Gregorio da Nissa, De Orat. Dom. , 5; S. Giovanni Damascane, De fide orth. 4,12.

[5] Constitut apostol 2,57,14 (ed. F.X. Funk, Didascalia et Constitutiones apostolorum, t.1, Paderbon, 1905, p- 165).

[6] San Basilio di Cesarea, De Spiritu Sancto, 27, 66.

[7] San Gregorio da Nissa. De orat. Domin. 5.

[8] San Tommaso, 2-2, q. 84, a. 3, ad 3.

[9] Sant'Agostino, Enarr. In ps 146, 4.

[10] Id., Confess. 10, 27, (edizione e traduzione A.C. Vega, Madrid, Biblioteca Degli Autori Cristiani 1946), pag. 750, 751.

[11] San Anselmo di Canterbury, Proslogion, 1.

[12] Sant'Agostino, Enarr. In ps. 147, 18.

[13] San Zenone di Verona, De Exodo, 1. (trad.: Israele è il popolo cristiano cui è stato imposto di mettersi in cammino per aspirare a cose future).

[14] San Teodoro di Mopsuestia, Omelie Catechetiche, 14, 28.

[15] Manuale precum S. Ioannis Gualberti, (edizione A. Salvini, Roma, 1933, pag. 5).

[16] Sant'Agostino, Enarr in ps. 132, 13.

[17] S. Ambrogio, in Luc 4, 12.

[18] San Giovanni Crisostomo, In act Apost. Hom. 32, 3.

[19] Evagrio Pontico, De iustis et perfectis, 17 (ed. J. Muyldermans, Evagriana Syriaca, Lovaina, 1952, pag. 145)

[20] San Tommaso, 2-2, q. 18, a. 1.

[21] Paradisus Patrum (P.G. 65, 444 B).

[22] Ambrogio Autperto, Vita Paldonis, Tatonis et Tasonis Vulturnensium, prolog.  (M.G.H. Script. Rer. Langobard., p. 547-548.)

[23] L. Bouyer, Il senso della vita monastica, Turnhout, Parigi (Tradizione Monastica, 2) 1950, p. 67.

[24] San Gregorio Magno, Omelia nel Vangelo 10, 7.

[25] In particolare nelle sue omelie sul libro dei Numeri.

[26] Sant'Ambrogio,Expl. Nel salmo 118, 4, 2.

[27] San Gregorio da Nissa, Nelle iscrizioni dei salmi 1, 9; Contra Eunomium, 12; In. Cant. , 7.

[28] Cornelio a Lapide, Commentari della Sacra Scrittura, t. 1, Milano, 1857 pag. 302-306.

[29] Liber patris nostri Orsiesii quem moriens pro testamento fratribus tradidit, 22 (edizione A. Boon, Pachomiana latina, Lovaina, 1932, pag. 123).

[30] San Gregorio da Nissa, Vita di Mosè; Contra eunomium, 12; In Cant. 5.

[31] Evagrio Pontico, Cent. 4, 43.

[32] San Geronimo, Nel salmo 119 (edizione G. Morin, in Anecdota Maredsolana, t. 3, I, pag. 221).

[33] San Zenone da Verona, Tractatus 2, 13, 4.

[34] Filosseno di Mabbug, Omelie, 7.

[35] Confronta, ad esempio, Epistola paschalis Theophili, Alexandrinae urbis episcopi, ad totius Aegypti episcopos, 3; San Basilio di Cesarea, Omelia  nel salmo 1, 4; Sant'Ambrogio, Expl. Salmo 1, 18; Filosseno de Mabbug, Omelie, 7 (fonti cristiane, 44, pag. 189-190).

[36] San Geronimo, Nel salmo 119.

[37] Id., Epistola 58, 2.

[38] San Benito, Regula 7, 5-9 (cito l'edizione di A. Lentini, Montecassino, 1947, molto più pratica perché il testo è diviso in versetti. Queste edizione è stata distribuita in G. M. Colombas, L.M. Sansegundo, O.M. Cunill, San Benito, la sua vita e la sua regola, Madrid (Biblioteca degli autori cristiani), 1954.

[39] San Gregorio da Nissa, Vita Mosis (P.G. 44, 416).

[40] I. Hausherr, L’imitazione di Gesù Cristo nella Spiritualità Bizantina, in Melanges offert au R.P: Ferdinand Cavallera…, Toulouse, 1948, p. 257.

[41] [P. Delatte] Commentario alla regola di San Benito, terza edizione, ed. Parigi, p. 118.

[42] San Benito, Regola 7,34.

[43] Id. ibidem, 7, 35-36.

[44] Id. ibidem, 7, 44.

[45] Id. ibidem, 7,49.

[46] Id. ibidem, 7, 51.

[47] Id. ibidem, 7, 23.

[48] S: Geronimo, in Salmi, 119.

[49] S. Benito, Regola 7, 32.

[50] Id. ibidem, 7, 34.

[51] Id. ibidem, 7, 38-39.

[52] Id. ibidem, 7, 50.

[53] Id. ibidem, 7, 52.

[54] Id. ibidem, 7, 66.

[55] Id. ibidem, 7, 67-70.

[56] Rom. 6, 4-11; Fil. 3, 10-11; etc.

[57] Si veda, ad esempio, Casiano, Instit.4, 34-35.

[58] A. Lamy, Bios Angelikos, in Dio vivente, n. 7 [1946], p. 75.

[59] Clemente di Alessandria, Stromata 7, 12. Confronta S. Ambrogio De juga speculi 4, 18 (CSEL 32,179) “Fuga ergo mors est vel celebrata vel adumbrata” (Quindi la morte è celebrata o simulata); Consultationes Zachaei et Apollonii, 3 (Flor. Patr. 39, 102): “Pro Dei autem nomine votiva mors omnibus [monachis] atque obtabilis sancti exitus pompa…” (Invece la morte votiva in nome di Dio con una processione della morte per tutti i monaci e i santi…).

[60] S. Ambrogio, in Salmi 118, 20, 12 “Omnes oportet per ignum probari, quicumque ad Paradisum redire desiderant” (E’necessario essere provati dal fuoco, per chiunque desideri tornare al Paradiso).

[61] Tertulliano, De Anima 55, 5 “Tota paradisi clavis tuus sanguis est” (Tutta la chiave del paradiso è nel tuo sangue).

[62] E.E.Malone, Il monaco ed il martire. Il monaco come il successore del martire. Washington 1950.

[63] S. Giovanni Damasceno, Vita di Barlaam et Josophat, prolog. (P.L. 443-444).

[64] S. Geronimo, Omelia in Luc. 16, 19-31, su Lazzaro: (versione originale citazione sopra) “Crux Christi clavis paradisi est, crus Christi aperuit paradisum. Non vobis dixit quod regnum caelorum vim patitur et violenti diripiunt illud? Qui in cruce est, non vim patitur ? Nihil medium est :crux et statim paradisus”

[65] S. Benito, Regula, prol. 49.

[66] Id. ibidem, 7, 70.

[67] [A. L’Huillier] Interpretazione ascetica e storica della regola di S. Benito, t. 1, Parigi, 1901, p. 270.

[68] S. Gregorio Magno, Moral. 5,5. (P.L. 75, 683 D).

[69] Nicetas Stethatos, Il paradiso spirituale, 23, in Fonti Cristiane 8, p. 53.

[70] Filosseno di Mabbug, Omelie, 7 in Fonti cristiane, 44 p. 190.

[71] S. Agostino, Sermone di S. Cipriano, 2.

[72] S. Ambrogio, De Spiritu Sancto 1,7, 84 (P.L.16, 754).

[73] S. Ambrogio, De fide 5, 6, 75 (P.L. 16, 691-692).

[74] S. Massimo, Vescovo di Torino, Serm. 16 (P.L. 57, 565 A).

[75] S. Pietro di Celle, De disciplina claustrali, 9 (P.L. 202, 1115 BC).

[76] Altri monasteri come ad esempio la Certosa della Scala-Caeli, in provincia di Tarragona, hanno secondo la tradizione, origini simili.

 
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