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ANGELI E ANGELISMO di Garcia Colombas PDF Stampa E-mail
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martedì 02 agosto 2016
Angeli e angelismoDa qualche tempo ci si oppone vivamente a certe tendenze che, nella morale ascetica, non attribuiscono al corpo umano il ruolo che gli corrisponde. A tali correnti è solito applicare il nome di “angelismo”. “Angelismo” significa uno spirito, una condotta, una dottrina che, col pretesto di spiritualizzare l'uomo, dimentica o diminuisce la sua presente condizione, terrena e carnale, falsando le autentiche prospettive dell'ascetismo cristiano. L’“angelismo” è, dunque, un falso spiritualismo, i cui debellanti si rivelano tuttora vivi ed operanti in seno alla Chiesa cattolica. È questa morale che sistematicamente getta un fitto velo su tutte le manifestazioni della sensibilità, perché in fondo le considera intrinsecamente cattive; sono questi metodi educativi che impongono ad intere generazioni un puritanesimo di conseguenze inverosimili; sono queste forme di spiritualità che sembrano aver rotto con tutto l'umanesimo e respinto tutti i valori temporali.
Niente di più encomiabile che scoprire e far ritornare al loro legittimo corso le correnti confuse della morale e della spiritualità cristiana. Però in tutte le reazioni esiste il pericolo di esagerare, di andare a finire all'estremo contrario; e concretamente, nello sforzo di staccarsi da dottrine e metodi accusati di “snaturare” l'essere umano, si corre il rischio di cadere in altri errori verso i quali l'uomo dei nostri giorni scivola con molta più facilità. ...
...Perché tutto, nella vita moderna, propende e si adopera, non precisamente a “disincarnare”, ed “angelizzare”, bensì ad “incarnare”, “umanizzare”, “naturalizzare” con eccesso. L'uomo si sente ogni volta più padrone assoluto dell'universo. La scienza e la tecnica avanzano con passi da gigante; la materia è dominata; si strappano alla natura tutti i suoi segreti; conquistati la terra, il mare e l'aria, si tenta già seriamente di spadroneggiare il firmamento. L'uomo si trova bene in questo mondo. Una civilizzazione ricercata ha determinato tutta una serie di comodità, diversivi e piaceri, dai più nobili ai più miseri; il benessere si generalizza; la morale si rilassa; la vita è bella e gradevole, disseminata di tutti i tipi di fiori. Tali circostanze non possono più essere propizie, finché il naturalismo, un umanesimo che volta le spalle a Dio e uno sfrenato edonismo penetrano da tutte le parti. Solo ogni tanto la sofferenza, individuale o collettiva, obbliga a riflettere un po'; però l'uomo si getta di nuovo nel grande fiume della vita, e il vortice del vivere moderno soffoca le sue aspirazioni ad una vita migliore, gli impedisce di ampliare la sua vista al di là del limitato orizzonte di questo mondo materiale. Radicarsi, stabilirsi, installarsi, sentirsi pienamente soddisfatto con ciò che si è e che si possiede nel mondo presente, non desiderare un'altra vita in un mondo futuro, sono sempre state tendenze del cuore umano meschino e codardo; ma tra le tendenze sembrano essere più vivaci soprattutto ai nostri giorni, e non è per fortuna, illusione, credere che sotto forme più o meno sottili i fallaci si infiltrano anche in certi ambienti cristiani.
Oggi si parla moltissimo, ad esempio, di cristianesimo “incarnato”; e davvero sconcerta, nelle più radicali posizioni degli auspicatori della partecipazione terrena della nostra religione, il suo traboccante ottimismo, “animato da inconfessati fili millenaristi”.1
Indubbiamente, la religione cristiana è la religione dell'Incarnazione. “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Giovanni 1, 14). Però l’unigenito del Padre scese nel nostro mondo, non per aggregarsi e incorporarsi al genere umano, restare qui per sempre e fondare un regno terrestre, bensì per condurre l'umanità, come il buon pastore prende la pecorella smarrita, e la porta con sé nel suo regno celeste, la nostra vera patria. Il cristianesimo è la religione dell'Incarnazione, e contemporaneamente è la religione dell'Ascensione. “Quando me ne sarò andato”, -  aveva detto Gesù al suoi discepoli – “e vi avrò preparato il posto, ritornerò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io, sarete anche voi”(Gv. 14, 3). Nostro Signore salì al cielo per diritto di natura, e vuole che lo seguiamo per grazia: “Padre, voglio che dove mi trovo io, ci siano anche loro con me, perché vedano la gloria che mi hai dato” (Gv. 17, 24). Il mistero dell'Ascensione trasforma tutta la vita umana. Prima, l'orizzonte dell'oltretomba restava buio e chiuso, ora Cristo lo apre e ce lo mostra in tutto il suo splendore. E, con l'apostolo, “sappiamo che se la tenda della nostra dimora terrena viene meno, abbiamo una solida casa in Dio, non fatta per mano dell'uomo, ma eterna, nei cieli”; e siamo “persuasi che, mentre abitiamo in questo corpo, siamo assenti davanti al Signore, perché camminiamo in fede e non in visione”; e “desideriamo partire dal corpo per andare alla presenza del Signore” (2 Cor. 5, 1-8). Il capo precede le sue membra; va a preparargli un luogo; per stare tutti insieme nel cielo! E da quando il Signore è salito al cielo, la sua chiamata si fa più urgente. Sant'Ignazio di Antiochia presto scriverà: “Niente che si manifesta è buono; Gesù Cristo, nostro Dio, adesso che è con suo padre, si manifesta di più”.2  E ascoltando il profondo del suo cuore la chiamata del Signore, il martire avverte l'impazienza di unirsi con Lui per sempre: “A Colui che morì, a Colui che per noi risuscitò. La mia partenza è imminente. Perdonatemi, fratelli: non impeditemi di vivere, non consegnate al mondo chi non vuole che essere di Dio. Lasciatemi contemplare la luce pura. Arrivato lì, sarò veramente un uomo”.3
“Arrivato lì”, cioè arrivato alla luce pura del Paradiso celeste, “sarò veramente uomo”. Parole nobili, degne di figurare sul frontespizio della teoria dell'umanesimo cristiano, ancora meglio “dell'umanesimo escatologico”, per usare un'espressione di conio recente, però particolarmente felice.4
Questa teoria si potrebbe riassumere in poche righe. La sua tesi essenziale è questa: l'uomo non raggiunge le sue proporzioni perfette se non superando se stesso. Gli insegnamenti del Signore e degli Apostoli contengono l'ideale divino e umano di una vita che è al di sopra delle nostre forze naturali, la quale però può unicamente soddisfare le nostre intime aspirazioni e corrispondere degnamente ai benefici di Dio. L'uomo è stato chiamato ad una vita soprannaturale; la possiede già dal battesimo: deve, pertanto, superare con la grazia l'umanità pura. Non possiamo raggiungere la forma ideale dell'umanità adesso, nel tempo, ma dobbiamo prepararci a raggiungere questa forma perfetta nell'aldilà, quando l'immagine umana si sarà unita definitivamente al suo divino archetipo. Stando così le cose, il cristiano di conseguenza può solo interessarsi alle realtà terrene, in quanto sono la via che conduce al Paradiso, e sentendosi tuttora figlio della terra e capace di assumere tutti i valori dell'universo materiale nel poema che il suo spirito compone e canta senza smettere e senza mai terminarlo, sa tuttavia ancora meglio che è chiamato ad una vita celestiale, una vita che fiorisce sopra il mondo presente. Non che il cristiano disprezzi le opere del Creatore; non respinge nulla che sia umano, e nemmeno abbandona il mondo a Satana. Il suo ascetismo non significa una dannazione del relativo, bensì una “preferenza dell'Assoluto”, preferenza che implica necessariamente una rinuncia e un distacco. Solo così, distaccato da tutti gli ostacoli, straniero e pellegrino in questa vita, l'uomo corre veloce verso la sua perfezione finale e sopraterrena, che raggiungerà quando contemplerà e loderà Dio in compagnia degli spiriti celesti.
In definitiva è questo ciò che viene a dirci sopratutto il vecchio tema della vita angelica. Il suo principale messaggio, la sintesi e l'anima del suo contenuto, è il senso escatologico di una vocazione umana.
“Tutta l'antichità cristiana” - è stato scritto – “comprese la vocazione dell'uomo come una vocazione a partecipare alla vita angelica, in quanto questa si determina con la visione di Dio”.5  Secondo un altro autore, quando la tradizione parla di vita angelica, considera soprattutto “la funzione di lode che svolgono” gli spiriti celesti.6  In realtà, come abbiamo visto, l’imitazione della vita angelica implica ugualmente nella tradizione dei Padri, la lode e la contemplazione oltre l'ascetismo, la castità e tutte le virtù che avvicinano l'uomo alla purezza degli angeli. Però “vita angelica” non è sinonimo di “angelismo”. Non si tratta di sopprimere, dimenticare o disprezzare la carne in quanto tale, bensì di dominare e purificare una carne macchiata e viziata dal peccato. L'uomo non cambia per natura; non si propone di raggiungere la condizione naturale degli spiriti puri, ma di arrivare al coronamento di una salvezza in cui l'uomo e l'angelo sono uguali al cospetto di Dio. L'uomo è concittadino degli angeli, ha con loro comunità di vita, però questo solo a partire dall'ordine delle essenze che esprime la nuova condizione storica degli eletti. La salvezza ci comunica una partecipazione alle funzioni, la vita e la beatitudine degli spiriti celesti.7  Non è la natura, bensì la vocazione degli angeli quello che ci si propone come ideale cristiano: una vocazione di purezza, di santità, di stare con Dio, di vederlo, di contemplarlo, di servirlo, di lodarlo.
Solo nel Paradiso celeste la vita angelica degli uomini troverà la sua piena realizzazione; però già adesso, incoativamente, inizialmente, è possibile condurla in questo mondo, nel Paradiso della Chiesa. E la tradizione l'ha vista incarnata specialmente nelle vergini consacrate, negli asceti e nei monaci. Il monaco, la vergine, l'asceta, cioè i cristiani dedicati corpo e anima alla ricerca di Dio e della perfezione angelica, attestano davanti al mondo intero l'esistenza della vita futura, non con le parole, ma mostrandola già inaugurata attraverso la trasformazione del proprio spirito e cuore, che trabocca nel loro stesso corpo. Il monaco fedele alla sua vocazione ricorda a tutti gli uomini che non furono fatti per la terra, che questa vita non è la vita; è un “segno vivo di escatologia”.8  Se ha rinunciato a questo mondo, se è uscito da esso, è per entrare fin d'ora in qualche modo nel mondo di Dio e degli angeli. Impegnato senza smettere nella salmodia, nella preghiera e nella meditazione della Sacra Scrittura; contemplando nella natura il riflesso della perfezione di Dio; scoprendo nell’alternarsi delle stagioni, i mesi, i giorni e le ore, la proiezione di un ritmo celeste, il monaco vive in unione con le cose divine, e perciò, la tradizione lo considera come possessore della beatitudine paradisiaca di Adamo o, meglio, della beatitudine del “secondo Paradiso”, la vita angelica dei beati. “I loro movimenti sono come quelli degli esseri celesti e tutta la loro regola è come quella degli angeli: canta, al par di loro, spiritualmente il trisagio, salmodia spiritualmente e serve Dio in spirito e verità”.9
L'asceta, il monaco, la vergine consacrata sono fin da adesso, in questo senso, abitanti del Paradiso. E la salmodia, la preghiera, il contatto assiduo della parola di Dio, li prepara meravigliosamente per il dialogo interno che li riguarderà in cielo, li abitua al linguaggio degli angeli! Per queste persone la vita futura sembra come straordinariamente prossima, o per meglio dire, come la rivelazione splendida di quello che già realmente sono e possiedono.
Così ci induce a immaginare, ad esempio, il transito di Santa Paola, l'ammirevole discepola di San Geronimo. Dopo lunghi anni di ascetismo, eccellente conoscitrice della Sacra Scrittura, a cui ripensava giorno e notte, sentiva che lo Sposo arrivava per portarla con sé. La sua venuta non fu per lei un problema, una contrarietà, ma rispondeva ai suoi più ardenti desideri.
“Cadde gravemente inferma” - scrive San Geronimo – “o meglio ancora, ottenne ciò cui anelava: lasciarci per unirsi completamente al Signore”.10  Il suo transito da un mondo all'altro fu appena percettibile: né convulsioni, né lamenti, niente che ricordasse l’amara morte dei pagani. Così serena e allegra risultò la dipartita di Paola, che San Geronimo ebbe l'impressione che la Santa abbandonasse un paese straniero per ritornare alla sua vera patria.11
L’inferma sospirava con il salmista per i tabernacoli del Signore , trasformando così la sua agonia in un sacrificio di lode, quando udì la voce amorosa dello Sposo che le parlava con le parole del Cantico dei cantici (2, 10-12).

Alzati, amica mia,
mia bella, e vieni!
Perché, ecco, l'inverno è passato,
è cessata la pioggia, se n'è andata;

E Paola, continuando il sacro testo, rispose gioiosa:

Sono già sbocciati nella terra i fiori.
È già arrivato il tempo della potatura…
 
1  J. L. L. Aranguren, Cattolicesimo, giorno dopo giorno, Barcellona, 1955, p. 259-260.
2  S. Ignazio di Antiochia, Ad. Rom. 3,3 (ed. e trad a cura di Ruiz Bueno, Padres Apostólicos, Madrid [Biblioteca degli autori cristaini] 1950, p. 476).
3  Id. ibid. 6, 1-2 (p. 478).
4  L’espressione è dovuta a P. Lialine. È stata resa nota con evidente compiacenza da P.L. Bouyer.
5  L. Bouyer, Il senso della vita  monastica, p. 43.
6  J. Leclercq, L’amore delle lettere…, p. 59.
7  J. C. Didier, op. cit, p. 42.
8  P. Deseille, La liturgia monastica secondo i primi cistercensi, in La Maison Dieu (La Casa-Dio), n. 51, 1957, p. 86.
9  Filosseno di Mabbug, Omelie, 9, (Fonti cristiane 44, p. 310).
10  S. Geronimo, Epist. 108, 27 (C.S.E.L. 55, 346).
11  Id. ibidem, 108, 28 (p. 347).
 
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