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E’ NELLE LIBRERIE “ASSASSINIO A DAMASCO” EDITO DALLA SUGARCO PDF Stampa E-mail

E’ NELLE LIBRERIE “ ASSASSINIO A DAMASCO” EDITO DALLA SUGARCOIn questo febbraio 2014 è appena arrivato in  tutte le librerie  il testo “ Assassinio a Damasco. Chi ha ucciso Padre Tommaso da Calangianus” edito dalla Sugarco di Milano e scritto da mons. Giuseppe Inzaina e  da don Marcello Stanzione. Il libro indaga sulla tragica morte a Damasco nel 1840 del cappuccino padre Tommaso da Calangianus. Il caso del missionario sardo ucciso fu a lungo utilizzato dalla pubblicistica antisemita per accusare gli ebrei di omicidio rituale.  Omicidio rituale: nome e aggettivo evocano una scena drammatica ad altissimo effetto simbolico-spettacolare, dove l’uccisione non avviene per caso, ma seguendo un rito prestabilito. Nella tradizione ebraica compare sotto forma di accusa a far data dal XII secolo, in Inghilterra, nell’opera di un monaco benedettino, Thomas di Monmouth, dal titolo “Sulla vita e il martirio di William martire di Norwich”. ... 

... Il testo, pubblicato nell’anno 1150 o 1154, riporta un fatto avvenuto alcuni anni prima, durante il Sabato Santo dell’anno 1144, quando in un bosco vicino a Norwich fu rinvenuto il cadavere di un bambino di 12 anni crocifisso il Mercoledì Santo, durante la festa ebraica di Pesach. Furono accusati gli ebrei del macabro omicidio, orrendamente compiuto – almeno così riportano le cronache – nella casa del rabbino capo, che si salvò solo per l’intervento della regina. Monmouth conclude il suo libro dicendo di avere appreso, attraverso la confessione d’un convertito, che ve ne sarebbero state altre di uccisioni come quella, giacché ogni anno in Francia, a Narbonne, si riuniva il consiglio ebreo degli anziani, per tirare a sorte la città dove sarebbe stato versato altro sangue di un piccolo cristiano.
Da allora in poi, gli etnografi ne registrano molti di casi analoghi, avvenuti in varie città d’Europa durante il basso medioevo e nelle epoche successive.
Pur nelle varianti popolari, ha un fondamento comune quest’accusa, la convinzione che il sangue cristiano serva agli ebrei per la celebrazione di taluni culti – per lo più, lo utilizzano per impastare gli azzimi non lievitati per la festa di Pesach – e finanche per scopi terapeutici e magici: è un buon rimedio per curare le ferite dopo la circoncisione o in caso di parto pericoloso; e pare sia unguento miracoloso per far sparire le corna dalla testa dei neonati.
Stante una lettura fedele della Torah, si cade nella pura contraddizione ad immaginarli dei vampiri, sebbene ciò non basti a frenare certe credenze popolari, che spesso covano i peggiori pregiudizi: assieme all’avvelenamento dei pozzi, la profanazione dell’ostia, la diffusione della peste e di altra calamità, l’accusa di omicidio rituale serpeggia ovunque si rinvenga un cadavere cristiano dissanguato, meglio se bambino. Anno 1239, se ne ritrovano cinque di questi, a Fulda, tra le ceneri di un vecchio mulino incendiato, nel giorno di Natale: vengono arrestati due ebrei, accusati di avere appiccato le fiamme per nascondere i resti di quei corpi martoriati, uccisi allo scopo di procurarsi il prezioso sangue. Subiranno il processo e la morte assieme ad altri membri della comunità ebraica di quella cittadina. Stessa sorte  toccherà a cinque uomini, tre donne e tre bambini ebrei a Kitzingen, nella Burgundia, poi che un Martedì Santo viene trovato il corpo mutilato d’una bambina di due anni appena. Spira aria inquieta fin dalla macabra scoperta, e dopo diversi giorni di supplizi i primi arrestati ammettono l’uccisione, senza risparmiare dettagli e ragioni della mattanza: l’avevano crocifissa e poi bevuto il sangue per ottenere la remissione dei peccati nel giorno di Shabbat.
Nel caso del giovane Werner di Oberwesel, anch’egli ritenuto vittima innocente di un omicidio rituale nell’anno 1287, si scatena un vero e proprio fenomeno repressivo di massa, che costa la vita a più di seicento ebrei in oltre venti località tedesche.
In questi ed in molti altri casi sorge un sospetto, che la calunnia – per come appaia priva di fondamento teologico – sia un pretesto per confiscare i beni ai ricchi ebrei, come già in passato alcuni papi, tra cui Innocenzo IV e Gregorio X, avevano ritenuto e deplorato. Ciò nonostante, i casi di martiri dell’odio ebraico riconosciuti dalla Chiesa continueranno ad aumentare nei secoli, complice anche uno stile inquisitorio tipico che risulta comune ai diversi processi: simile alle antiche ordalìe, la tortura è un mezzo classico ad eruendam veritatem, dove l’inquisito che resiste ai supplizi può avere salva la vita. Nell’esperienza processuale, tuttavia, ed anche in quella relativa agli omicidi rituali, l’inquisitore manipola gli interrogatori, ricorrendo a un meccanismo induttivo abbastanza scontato: concepita un’ipotesi, la ammetta l’indiziato del delitto, magari facendo i nomi di eventuali complici o mandanti; ed essendo ammesso il ricorso agli arnesi più atroci, accade che per lo più l’imputato confessi in tormentiis, talvolta sedotto dalle promesse dei suoi aguzzini. Ne nascono giudizi incoerenti e capziosi. Uno così viene celebrato in Italia, a Trento, nell’anno 1475: un frate francescano scalzo, Bernardino da Feltre, ha appena abbandonato la città dopo avere annunciato sciagure imminenti in quel luogo; e poi che la profezia si avvera, rinvenuto la domenica di Pasqua il cadavere di un bimbo dissanguato nelle acque di una roggia, si accusano gli ebrei di quella misteriosa morte. Sono quindici in tutto, ed abitano nei pressi del luogo del ritrovamento, nella zona dell’attuale piazza della Mostra. Stesso metodo di giudizio anche per loro, a lungo torturati, qualcuno resiste e non confessa, altri alla fine cedono, e a questi viene concesso di morire di morte meno dolorosa: finiranno anch’essi sul rogo, al pari degli altri membri di quella conventicola assassina, ma prima di essere dati alle fiamme riceveranno il privilegio di essere decapitati. Vicenda dai tratti oscuri, perfino il legato pontificio inviato da papa Sisto IV, che intende far chiarezza su quei fatti, conclude le sue indagini a favore degli ebrei, sebbene non riesca comunque a fargli salva la vita: in processi come questi, giocati più su radici emotive che logiche, non si può ignorare quel che pensa la comunità; e nel caso del piccolo Simonino – i cui resti esposti paiono generare esperienze terapeutiche e allucinatorie in chi li adora – a volere giustiziati gli ebrei inquisiti è un’intera massa cittadina, cui non riesce ad opporsi non solo il       principe-vescovo di Trento, Giovanni Hinderbach, ma anche lo stesso pontefice, che alla fine finisce per riconoscere corretto il giudizio svoltosi. Nel 1588 il culto di quel bimbo ritenuto martire verrà riconosciuto ufficialmente dalla Santa Sede, e ci vorranno quasi quattro secoli prima di vederlo soppresso, sul finire del Concilio Vaticano II.  
Analizzando i casi fin’ora riportati, emergono alcuni dati comuni nei diversi giudizi instaurati: in nessuno di essi appaiono prove così evidenti che non siano la sola confessione degli indiziati; e nel laboratorio alchemico processuale la stessa si ottiene mediante il ricorso all’istituto giuridico della tortura giudiziaria, quasi sempre producendo esiti scontati.
Nell’affaire di Damasco, oggetto di indagine del libro di Giuseppe Inzaina e Marcello Stanzione, interviene una variante. Padre Tommaso da Calangianus, un frate cappuccino originario della Sardegna, giunge in Siria come missionario nel 1807, e diventa presto un personaggio molto amato in quella terra, prestando cura ai malati e somministrando a migliaia di bambini di ogni religione il vaccino contro il vaiolo. Quando scompare assieme al suo servitore musulmano, il 5 febbraio del 1840, gli altri frati informano il console francese Ratti Menton, il quale a sua volta informa il governo locale, che apre un’indagine. Viene sospettato un barbiere ebreo, un certo Soliman, che subisce il processo e l’interrogatorio. Confessa il crimine, senza risparmiare i dettagli più truculenti del macabro rito: padre Tommaso era stato invitato a casa di un ebreo tra i più ricchi e potenti della città, David Harrari, e lì assalito da lui e da altri ebrei, tra cui un rabbino, che gli avevano legato mani e piedi, e lo avevano imbavagliato. Soliman avrebbe dovuto tagliargli la gola con un rasoio, ma ci aveva ripensato, così che lo aveva fatto lo stesso Harrari, aiutato dal fratello Aronne. Il sangue era stato raccolto in un vaso d’argento, e conservato per impastare gli azzimi. Il cadavere, poi, era stato spogliato degli indumenti, che furono bruciati immediatamente, mentre il corpo era stato tagliato a pezzi in un’altra stanza, le ossa frantumate con un pestone di ferro, ed i resti raccolti in un sacco di caffè, gettato via in un canale di scolo.
Arrestati altri ebrei, persone più che rispettabili a Damasco, quasi tutti confessano dopo avere subito il carcere e la tortura. Uno di coloro che nega di avere ucciso padre Tommaso, Jacob Antabi, un rabbino, scriverà una lettera al capo della comunità ebraica in Inghilterra, Moses Montefiore, descrivendo in modo preciso i metodi inumani utilizzati negli interrogatori. Gli era stato chiesto dove avesse nascosto la bottiglia contenente il sangue di quel frate, e poi che egli aveva negato di averla mai posseduta, era stato calato in una pozza d’acqua gelida, sospinto giù fino quasi a soffocare, dopodiché era stato a lungo frustato e trascinato con una corda stretta intorno ai genitali.
Giunge un missionario protestante inglese a Damasco, per indagare sulla vicenda, e dai suoi rapporti emerge come i prigionieri abbiano confessato l’omicidio di quel religioso solo per evitare di subire altri supplizi, già costati la vita a due di loro. Quelli sopravvissuti, dieci in tutto, vengono condannati a morte. Senonché interviene, a questo punto, un coup de scène inaspettato: ad un passo dal patibolo, il viceré egiziano, Mehmet Alì, ordina di sospendere l’esecuzione. Il caso degli ebrei di Damasco, difatti, è uscito dai confini della Siria – che allora comprendeva il Libano e la Palestina – ed è giunto fino in Occidente, suscitando sdegno soprattutto presso la corte imperiale d’Austria e l’Inghilterra. Nel mese di agosto del 1840 giunge una delegazione ad Alessandria, composta – tra l’altro – dal responsabile della comunità ebraica inglese, Moses Montefiore, e da un esponente di spicco della comunità ebraica francese, Adolphe Crémieux, al fine di incontrare il viceré e convincerlo ad avviare un nuovo processo.
Durante quei giorni di laboriose mediazioni, l’Austria e l’Inghilterra, insieme con le alleate Russia e Prussia, rivolgono ad Alì un ultimatum, preannunciandogli una guerra qualora non restituisca i territori non egiziani al sultano ottomano. È questa, con ogni probabilità, la variante che orienta questa vicenda verso una conclusione poco scontata: l’affaire di Damasco si pone al centro di delicate trattative diplomatiche tra il viceré e le potenze occidentali, che inducono il primo a convincersi dell’opportunità di ordinare il rilascio incondizionato dei prigionieri accusati dell’omicidio di padre Tommaso, con lo scopo evidente di ridurre le tensioni a livello internazionale.
Eclissato così il caso, esce a nudo tutta l’indignazione del Vaticano e del consolato francese a Damasco, ambienti fortemente persuasi della colpevolezza degli ebrei.
Nella seconda metà del secolo, la stampa cattolica ripropone vecchie accuse di omicidio rituale. Sulla “Civiltà Cattolica”, rivista dei gesuiti, gli articoli di un certo padre Oreglia sono divorati dai lettori, assieme a quelli di un altro frate, padre Riondina, anch’egli appartenente al collettivo editoriale gesuita, che pare compiacersi nel riportare i particolari più cruenti di un omicidio rituale, giacché – a dir suo – conviene agli ebrei che la vittima muoia tra i tormenti, come accadde nel caso del piccolo Simonino da Trento e a tanti altri. Sul finire di quel secolo, poi, è anche “L’Osservatore Romano” a riportare un caso di omicidio rituale avvenuto in Ungheria, mentre diversi appaiono su un quotidiano milanese, “L’Osservatore Cattolico”, il cui direttore, padre Davide Albertario, durante un’udienza privata riceve le lodi di Leone XIII per il buon lavoro svolto.  
Nel 1896 i frati cappuccini di Sardegna pubblicano un resoconto sul caso di Damasco, per non dimenticare l’omicidio del loro amato padre Tommaso. Un omicidio che, dopo oltre un secolo e mezzo, continua a far discutere…

Avv. Gianfranco Di Simone

Segnalazione di Don Marcello Stanzione (Ha scritto e pubblicato clicca qui)

 
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