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SAN CAMILLO DE LELLIS: QUARTO CENTENARIO DELLA MORTE DELL’APOSTOLO DEGLI INFERMI PDF Stampa E-mail

SAN CAMILLO DE LELLIS: QUARTO CENTENARIO DELLA MORTE DELL’APOSTOLO DEGLI INFERMICon inizio dal 14 luglio 2013  celebriamo i 400 anni della morte di san Camillo de Lellis, iniziatore di una riforma nel campo sanitario le cui intuizioni e indicazioni conservano ancor oggi tutta la loro validità. San Camillo è stato il fondatore dell’ordine dei ministri degli infermi che attualmente sono 1132 professi perpetui, 190 professi temporanei e 49 novizi. In Italia ci sono 3 Province dell’ordine, quella dell’Italia del Nord, la Provincia Romana e quella Siculo-Napoletana. A livello di consacrazione religiosa femminile, le Suore Figlie di San Camillo sono 1000 membri, le Suore ministre degli infermi di San Camillo sono 400 religiose, le Missionarie degli infermi Cristo Speranza sono 300 suore a cui si aggiungono le Ancelle Missionarie camilliane.   Camillo era un abruzzese, nato nel 1550 a Bucchianico di Chieti, che allora faceva parte del regno di Napoli, possedimento spagnolo. Suo padre Giovanni, soldato di professione, gli trasmise il gusto dell’avventura e la passione per il gioco d’azzardo. ...

... Il giovane Camillo, esuberante e ribelle, dopo aver imparato a malapena a leggere e a scrivere, intraprese la carriera militare come soldato di ventura e fu al soldo della Repubblica di Venezia e della Spagna a Zara, Corfù e Tunisi. Non si vantò mai delle imprese a cui aveva partecipato, e lui stesso confessò di essere stato un “soldataccio”, motivato solo dallo stipendio che percepiva e che regolarmente sperperava nel gioco,  dove una volta perse tutto, anche la spada e la camicia. Giunse al punto di dover chiedere l’elemosina ai cappuccini del convento di Manfredonia, dove si adattò a svolgere lavori da manovale. Ma a 25 anni, nel 1575, conobbe una crisi spirituale e, come raccontava lui stesso, la grazia del Signore lo toccò sulla strada fra San Giovanni Rotondo e Manfredonia. Chiese di vestire l’abito dei cappuccini ed entrò nel noviziato di Trivento (Campobasso), che dovette però ben presto lasciare per il riaprirsi di una piaga al piede, conseguenza di una ferita, che già quattro anni prima lo aveva costretto al ricovero nell’ospedale di San Giacomo degli Incurabili a Roma. Dopo la guarigione tentò di nuovo la vita religiosa, ma per il riacutizzarsi della ferita fu costretto a lasciarla definitivamente. Fece ritorno a Roma, al san Giacomo, dove restò per alcuni anni come sovraintendente. All’ospedale di San Giacomo, fu testimone diretto dell’abbandono dell’incuria in cui versavano i malati. A giudicare da alcuni grandi ospedali sorti in quegli anni, si potrebbe pensare che nel Cinquecento non facesse difetto la sensibilità né l’attenzione per gli ammalati. In varie città italiane erano stati costruite grandi e addirittura imponenti strutture sanitarie. L’ospedale di San Giacomo a Roma, dove si trovava Camillo, era stato progettato da alcuni degli architetti più celebri del tempo. Nella grande corsia lunga più di cento metri, larga dieci e alta otto, trovavano posto quasi duecento letti, che potevano diventare più del doppio nei periodi di emergenza. Sottostante a questa, vi era un’altra corsi, che poteva contenere almeno un centinaio di letti. Sempre a Roma, l’ospedale di Santo Spirito, voluto da papa Sisto IV, aveva una corsia di 120 metri, ornata di uno splendido soffitto a cassettoni, e poteva accogliere tra i 400 e i 500 infermi. Altri grandi ospedali erano sorti a Genova (Pammatone), a Firenze (Santa Maria Nova), a Napoli (gli Incurabili), e soprattutto a Milano, dove la celebre Ca’ Granda era definita”una città nella città”.Ma a questa imponenza architettonica non corrispondeva una adeguata assistenza ai malati. Al di là della spaventosa mancanza dei più elementari principi igienici, propria di quel secolo, esistevano carenze molto gravi nel personale incaricato dell’assistenza. Non solo il più delle volte era insufficiente, ma di norma reclutato fra gente instabile, mercenaria ed ex galeotti. In questi ospedali, sempre sovraffollati per le frequenti epidemie, nessuno, ad esempio, assisteva gli ammalati gravi all’ora dei pasti, i letti venivano rifatti saltuariamente, la biancheria cambiata in modo irregolare e spesso invasa da parassiti. Il pregiudizio che aria e acqua fossero dannosi agli infermi faceva regnare nelle corsie un’aria pesante e maleodorante. Egli si trovava in una struttura di questo tipo quando, nel 1582, ebbe l’idea di formare un gruppo di infermieri che si occupassero dei malati “non per mercede, ma volontariamente e per amore di Dio”: nacque la Compagnia dei servi degli infermi. Nel 1584 fu ordinato sacerdote. Sapeva leggere e scrivere, era una persona “senza lettere”, estranea alle dispute teologiche del tempo. Eppure tutta la sua opera rivela una capacità di lettura attenta e personale del Vangelo e una ispirazione originale, che passavano attraverso l’insegnamento impartito e la forza del suo esempio. La prima idea attuata si evolse fino all’istituzione di una comunità religiosa conforme alle norme canoniche del tempo. Nel 1586 papa Sisto V approvò la Congregazione dei Ministri degli Infermi, che Gregorio XIV nel 1591 elevò allo statuto di ordine religioso. Inizialmente il fondatore dei Ministri degli Infermi aveva pensato di operare solo a Roma. Ma il suo istituto era andato consolidandosi e espandendosi assai rapidamente, così che la notizia della sua riforma era giunta in molte alte città italiane, che richiedevano sempre più spesso la sua opera. Nel 1588 assunse il servizio degli ammalati all’Ospedale degli Incurabili di Napoli, nel 1594 alla Ca’ Granda di Milano e al Pammatone di Genova; l’anno seguente i suoi confratelli si recarono in Ungheria al seguito degli eserciti impegnati nella guerra contro i turchi, costituendo così oil primo nucleo di sanità militare organizzata. Negli anni successivi i camilliani furono chiamati a Bologna, Ferrara, Firenze, Messina, Palermo e Caltagirone.  Egli, nonostante l’impedimento della gamba malata, intraprese un gran numero di viaggi in varie città italiane per aprire nuove fondazioni o consolidarle nella fedeltà agli obiettivi. Nel 1607, dopo la rinuncia al generalato, ottenne di far parte della comunità di Milano, servendo gli ammalati alla Ca’ Granda. Qui, nei cinque mesi della sua permanenza, redasse le Regole, che descrivono anche l’organizzazione dei religiosi addetti nelle grandi sale dell’ospedale. A quel tempo l’Ordine religioso contava ormai 15 cade e oltre 300 religiosi (135 religiosi erano già morti per malattia contratta nel servizio agli ammalati durante le epidemie di pestilenza). Oltre ai Ministri degli Infermi, considerano Camillo ispiratore e guida le Ministre degli Infermi di san Camillo, fondate a Lucca nel 1841, le Figlie di san Camillo, fondate a Roma nel 1892, e l’Istituto Secolare Missionarie degli Infermi “Cristo Speranza”, fondate nel 1947. morì a Roma nel 1614. Fu canonizzato da Benedetto XIV nel 1746. nel 1886 Leone XIII lo proclamò, assieme a san Giovanni di Dio, patrono dei malati e degli ospedali; nel 1930 fu proclamato patrono del personale ospedaliero da Pio XI; nel 1974 patrono della Sanità militare italiane da Paolo VI. Dal 1964 è anche patrono del’Abruzzo. Un uomo che prende visione di una realtà problematica e drammatica, e lotta contro mentalità, consuetudini e costumi che spesso umiliano tanti poveri esseri umani già umiliati e offesi. Ai tempi di San Camillo, a Roma come altrove, l’ospedale era un estremo rifugio per disperati. Mentre infatti le persone abbienti erano assistite nelle loro case da medici privati, all’ospedale affluivano poveri di ogni genere, abbandonati op vagabondi, e una marea di contagiosi rifiutati da tutta la società. E quando questi non potevano o spesso non volevano entrare nell’ospedale, si trattenevano nelle loro misere abitazioni, o si rifugiavano nelle “grotte romane”, cioè negli anfratti dei ruderi dell’antichità o sotto gli archi dell’acquedotto dell’agro romano. La società rinascimentale li ignorava, li riteneva gli ultimi e li emarginava. San Camillo li cerca, ne fa i “primi” in senso assoluto. La cultura umanistica, come si sa, esaltava l’ “uomo” come essere eccellente e centro dell’universo. Ma quale uomo? L’uomo ideale e l’uomo eccezionale: l’individuo geniale, l’artista creativo, il principe astuto e forte, l’invitto capitano di ventura, lo scopritore di nuovi mondi. Ma il poveraccio senza prestigio e senza potere, e per di più malato o malandato, non trovava in questa cultura considerazione. San Camillo scopre “questo” uomo, scopre che costui è un uomo a pari dignità di ogni altro. Voleva, dopo la conversione, “servire” Dio in convento seconda la tradizione ascetico – monastica e Dio lo porta all’ospedale al servizio di questa misera gente. Naturalmente si dedica a “tutto” l’uomo, non solo alla sua malattia; comprendendo che uno entra nell’ospedale con tutto se stesso; non lasciando fuori niente della sua persona e della sua personalità: il povero porta i suoi quattro stracci ma anche il suo spirito libero e immortale. Camillo de Lellis ha posto chiaramente il problema dei “diritti dei malati”, non a parole ma con i fatti, non come dei principi astratti ma come bisogni concreti che esigono precisa risposta da chi sta attorno ai malati. Le calamità, le carestie, le pesti lo fanno accorrere con i suoi come a una “sagra della carità”. Coinvolge laici e cardinali, scuote la città e la Chiesa, trasmette a tutti il suo fuoco e la sua ansia: “Vorrei avere cento braccia per raggiungere la moltitudine di sofferenti…”. Il suo ardore di “opere e carità”! è nato dalla scoperta della dignità dell’uomo, soprattutto dall’aver visto nel malato “la persona stessa di Cristo…, la pupilla e il cuore di Dio…, il mio signore e padrone…”. La società dei nostri giorni è alla ricerca di nuove forme per attuare un servizio della salute che corrisponda ai fondamentali diritti dell’uomo. Sente il bisogno di recuperare il rispetto assoluto della dignità umana e di assicurare al paziente un’assistenza globale della sua persona; di formare operatori sanitari ricchi di umanità e di competenza e di suscitare collaboratori volontari che integrino l’assistenza in tutti i suoi aspetti personali e sociali. La promozione della salute dell’uomo è un compito delicato  complesso che esige l’apporto e la partecipazione di tutti i cittadini, di tutte le organizzazioni laiche e confessionali. Il messaggio di Camillo de Lellis parte da lontano, ma può raggiungere i nostri tempi, la nostra società e le sue necessità. L’umanità è stata sempre alle prese col problema del dolore e della malattia. La Chiesa ha espresso in ogni tempo la sua sollecitudine e ha suscitato l’intervento dei cristiani. Dell’ansia dell’uomo di oggi di fronte alla sofferenza si è fatto recentemente interprete anche il papa Giovanni Paolo II con la sua lettera apostolica  Salvifici doloris, indicando la risposta evangelica e impegnando ogni cristiano ad essere e ad agire “da buon samaritano”. L’universalità del dolore – argomenta il Papa – porta l’uomo a sperare se stesso e sprigiona in lui la solidarietà verso ogni tipo di sofferenza umana”.

Don Marcello Stanzione (Ha scritto e pubblicato clicca qui)

 
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