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Il Purgatorio visto dalla Beata Elisabetta Canori Mora PDF Print E-mail
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Il Purgatorio visto dalla Beata Elisabetta Canori MoraElisabetta Canori Mora nasce a Roma il 21 novembre 1774 da Tommaso e Teresa Primoli. La sua è una famiglia benestante, profondamente cristiana e attenta all’educazione dei figli. Il padre era importante proprietario terriero e gestiva molte tenute agricole, un gentiluomo vecchio stampo, amministrava senza avidità disdegnando il sopruso e la sopraffazione. I coniugi Canori hanno dodici figli, sei dei quali muoiono nei primi anni di vita. Quando nasce Elisabetta trova cinque fratelli maschi ed una sorella, Maria; dopo due anni arriva un’altra sorella, Benedetta. Nel giro di pochi anni, i cattivi raccolti, la moria di bestiame e l’insolvenza dei creditori, cambia la situazione economica e Tommaso Canori si trova costretto a ricorrere all’aiuto di un fratello che abita a Spoleto che si fa carico delle nipoti Elisabetta e Benedetta. Lo zio decide di affidare le nipoti alle Suore Agostiniane del monastero di S. Rita da Cascia, qui Elisabetta si distingue per intelligenza, profonda vita interiore e spirito di penitenza. Rientrata a Roma, conduce per alcuni anni vita brillante e mondana, facendosi notare per raffinatezza ...

... di tratto e bellezza. Elisabetta giudicherà questo periodo della sua vita un “tradimento”, anche se la sua coerenza morale non viene meno e la sua sensibilità religiosa è in qualche modo salvaguardata. Un alto prelato che conosce bene i problemi economici e le qualità spirituali della famiglia Canori, propone di far entrare Elisabetta e Benedetta nel monastero delle Oblate di S. Filippo, facendosi carico di tutte le spese. Benedetta accetta e si fa suora nel 1795, Elisabetta no, non se la sente di lasciare la famiglia in difficoltà.

Il 10 gennaio 1796 nella chiesa di Santa Maria in Campo Corleo, si celebra il matrimonio con Cristoforo Mora, ottimo giovane, colto, educato, religioso, ben avviato nella carriere di avvocato. Il matrimonio è una scelta maturata attentamente ma, dopo alcuni mesi, la fragilità psicologica di Cristoforo Mora compromette tutto. Allettato da una donna di modeste condizioni, tradisce la moglie e si estranea dalla famiglia, riducendola sul lastrico. Elisabetta alle violenze fisiche e psicologiche del marito risponde con una totale fedeltà.

La nascita delle figlie Marianna nel 1799 e Maria Lucina nel 1801 non migliora le cose. Costretta a guadagnarsi da vivere col lavoro delle proprie mani, segue con la massima attenzione le figlie e la cura quotidiana della casa, dedicando nello stesso tempo molto spazio alla preghiera, al servizio dei poveri e all’assistenza degli ammalati. La sua casa diventa punto di riferimento per molte persone che a lei si rivolgono per necessità materiali e spirituali. Svolge un’azione particolarmente attenta alle famiglie in difficoltà. Conosce ed approfondisce la spiritualità dei Trinitari e ne abbraccia l’ordine secolare, rispondendo con dedizione alla vocazione familiare e di consacrazione secolare. La fama della sua “santità”, l’eco delle sue esperienze mistiche e dei suoi “poteri taumaturgici” hanno grande risonanza particolarmente a Roma e nelle sue vicinanze. Niente, però, incide sul suo stile di vita povero, improntato ad una grande umiltà e ad un generoso spirito di servizio ai poveri e ai lontani da Dio. Dona se stessa per la conversione del marito, per il Papa, la Chiesa e la sua città di Roma, dove muore il 5 febbraio 1825. E’ sepolta nella Chiesa di San Carlino. Subito dopo la sua morte, il marito si converte, entra nell’Ordine dei Trinitari e diviene, poi frate Minore Conventuale e sacerdote, come gli aveva predetto la consorte. Elisabetta Canori Mora viene beatificata il 24 aprile 1994.

Nella vita della beata scritta dalla figlia, suor Maria lucina Mora, monaca filippina, riguardo al purgatorio leggiamo tra l’altro: “ Elisabetta era tornata a casa dalla Chiesa ed attendeva alle sue faccende domestiche. In queste vide apparire due religiosi trinitari, che umilmente la pregarono di volerli liberare dal purgatorio. “Cosa volete” – disse loro – “da me, o anime sante? Non sapete che sono la creatura più miserabile e peccatrice che abita la terra?”. “Non altro vogliamo” – soggiunsero – “che visiti in nostro suffragio la Scala Santa”, le dissero che i loro nomi erano uno Girolamo e l’altro Raimondo. La mattina seguente riferì tutto al suo padre spirituale, il quale le disse che non desse mente a queste immaginazioni e le avesse disprezzate. Ma nonostante fosse andata il giorno medesimo a visitare la Scala Santa, il giorno dopo il pranzo si portò alla Scala Santa e con molto raccoglimento, andò prima a visitare la Chiesa di San Giovanni e dopo essersi trattenuta circa una mezz’ora, passò a visitare la Scala Santa. Quando fu al primo gradino, vide apparire i due religiosi trinitari che salivano insieme la Scala Santa. L’interno raccoglimento l’obbligava a trattenersi qualche tempo per ogni gradino; quelle benedette anime la sollecitavano; la carità l’affrettava, la devozione la tratteneva. Per quanto si affaticasse, vi mise circa un’ora.

Terminato che ebbe di salire l’ultimo gradino, la ringraziarono della carità loro usata, promettendole di ricordarsi di lei e rapidamente spiccarono al cielo. L’anno seguente, si trovava nella Chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane; non sapeva per qual motivo ci fosse il suono lugubre delle campane. Stava il suo spirito in sommo raccoglimento, quando le fu manifestato che le suddette campane suonavano per suffragare le anime dei padri trinitari che su trovavano in purgatorio. Le fu significato che nel celebrarsi la Messa cantata le suddette anime sarebbero libere dal purgatorio. Quando da mano invisibile fu trasportato il suo spirito in un certo luogo dove vide queste anime fortunate, che tutte ansiose stavano aspettando il felice momento di potersi unire a quell’immenso bene che ardentemente bramavano di possedere. I Padri non erano che nel numero di tre o cinque. Non poté distinguere bene quanti fossero per la moltitudine delle altre anime appartenenti a questo sagro Ordine Trinitario, che umilmente si raccomandavano per presto sortire da quelle pene. Le loro premure destarono in Elisabetta un gran desiderio di liberarle da quel penare. Si raccomandò caldamente al Signore, acciò degnato si fosse di consolare tutte le suddette anime. Il Signore si degnò di ascoltare la preghiera della sua serva; le fece intendere che avesse ascoltata in loro suffragio la Messa e che sarebbero state liberate unitamente ai Padri Trinitari. Nell’Introito vide che tutte queste anime mutarono aspetto, da pallide e smorte, da afflitte e dolenti, al momento divennero floride e vivaci, tutte assorte in Dio, e stavano aspettando ansiose il felice momento di poterlo possedere. Nel cantare il Diesilla, si misero tutte in bell’ordine; nell’Oremus fu data una certa disposizione, e divennero chiare come l’ambra e furono purificate nei meriti di Gesù Cristo. Al Sanctus apparve candida luce che le re se quanto mai belle; alla Elevazione furono condotte al cielo per mano dagli angeli; nel dire Benedictus qui venit furono ricevute dall’Eterno Iddio, e annoverate fra i beati compresori del cielo.

Un altro giorno dopo la Santa Comunione se ne stava Elisabetta in sommo raccoglimento, quando vide presente l’anima di suo padre trapassato da circa nove anni; vedeva quella anima bella, tutta ammantata di luce. Seco si rallegrò, per un altro favore compartitogli dall’Eterno Iddio. In questo si umiliò profondamente e mostrando a Lui la sua riconoscenza verso l’infinito amore di Dio, con abbondanti lagrime deplorava le sue colpe. Suo padre a questa confessione, non si rattristò ma la pregò caldamente di raccomandare all’Eterno Iddio, tutti i loro parenti defunti; ella prontamente obbedì, porgendo all’Altissimo le sue suppliche con tutto fervore per suffragio delle suddette anime. Offrì nel sacrificio della Santa Messa i meriti di Gesù Cristo. La sua preghiera avvalorata dai meriti del buon Gesù fu molto efficace e tutto ad un tratto furono liberate da quel tenebroso carcere;M queste erano nel numero di quindici. All’Introito della Messa, Elisabetta fece la preghiera e al Sanctus si ottenne la grazia. Alla Elevazione, furono liberate; al Sanctus recò loro la felice nuova; alla Elevazione i rispettivi angeli custodi delle suddette anime scesero con somma allegria in quel carcere e trattele fuori da quell’oscuro luogo, al momento apparvero ammalate di splendidissima luce e si sollevarono al cielo, dopo avere profondamente adorato il Divin Sacramento esposto. Fatto un profondo inchino avanti all’altare, ringraziarono la loro liberatrice, con sensi di gratitudine e se ne andarono felicemente agli eterni riposi.

Il 4 novembre festa di San Carlo Borromeo, se ne stava lo spirito di Elisabetta godendo quanto mai di bene godersi da creatura viatrice, tanto era perfetta l’intima unione che godeva del suo Iddio, quando in mezzo a questa perfetta quiete, sentì molte voci lamentevoli, che a lei facevano ricorso. Conobbe essere queste le anime benedette del purgatorio. Si rivolse verso il Suo Dio, tutta compassione verso queste anime sante, e lo pregò di accodarle in grazia di portarsi a quell’orrido carcere, per poterle liberare. Il suo Dio le accordò la grazia, mediante i meriti di Gesù e di Maria ed i santi Re Magi, e di meriti di San Carlo Borromeo, i quali la condussero con loro in quel tenebroso carcere. Nell’aprirsi quel profondo luogo, volle morire nel vedere gli atroci tormenti che quelle benedette anime pativano. Erano tali e tanto gravosi i patimenti che non è possibile manifestarlo. Sentiva la medesima tanta compassione di loro che per liberarle si sarebbe data a patire i più gravi tormenti. Dimostrò con lacrime di compassione i suoi desideri al suo amorissimo Gesù, che tutto amore si degnava di guardarla. Lo pregò incessantemente ed ottenne dalla sua infinita liberalità la grazia di liberare molte di quelle anime benedette dal purgatorio. Quale consolazione fu per lei vedere in un baleno libere affatto da quei spietati tormenti una moltitudine di anime sante, che piene di gaudio se ne andarono al cielo a godere Iddio per tutta l’interminabile eternità! Quando ottenne l’altare privilegiato, dopo che fu eretta la cappella in casa, si degnò Iddio per mezzo delle orazioni di Elisabetta, di compatire molte grazie tanto alle persone viventi, quanto alle defunte, ottenendo dall’infinita bontà di liberare un buon numero di anime dal purgatorio, e fra queste il buon Cardinale Scotti, per il quale fece molte orazioni ed altri suffragi. Si applicò dunque con tutto l’impegno a suffragare questa anima, la quale le apparve dopo la Santa Comunione che aveva appli cato in suo suffragio, e con molte lacrime aveva pregato il Signore di liberare questa anima dal purgatorio.

Le apparve pieno di gioia e di contento, ringraziandola cordialmente di quanto avevo fatto per suo suffragio. “Mercé” – le disse – “l’infinita misericordia di Dio e le tue preghiere, che hanno mosso Dio a usarmi misericordia con l’abbreviare il tempo della mia dimora in quel tenebroso carcere. La divina giustizia mi aveva condannato nel purgatorio per il lungo spazio di trenta anni; in questo momento ricevo la consolante nuova che la misericordia infinita dell’eterno Iddio mi chiama agli eterni riposi. La bontà di Dio mi ha manifestato essere stata la tua preghiera che a tanto bene mi conduce; la mia gratitudine a beneficio sì segnalato ottenne dall’Altissimo di venirti a ringraziare. Avanti al Trono di Dio porgerò le mie suppliche per il tuo bene spirituale come ancora ricorderò il mio buon amico, per mezzo del quale ricevo questo gran bene. E nuovamente a lei rivolto, il suddetto defunto: “Le tue penitenze, digiuni e orazioni hanno dato il giusto compenso alla divina giustizia di Dio, mediante gli infiniti meriti di Gesù Cristo, ai cui meriti unisti la tua penitenza, digiuni e orazioni che facesti in mio suffragio. Adesso, adesso me ne vado al cielo a godere l’immenso bene per tutta l’interminabile eternità”. Così dicendo, per mezzo di un globo di luce chiarissimo lo vide sollevare nell’altezza del cielo, lasciando nel suo cuore un contento di paradiso, un sentimento di profonda umiltà ed un particolare raccoglimento. Darò termine a questo vasto ragguaglio, perché se volessi descriverli tutti formerei un volume da stancare che legge. Terminò con un altro racconto dal quale il lettore comprenderà come il Signore degnò la Sua serva di farla arbitra del purgatorio nel corso dell’anno, ma in particolare nella ottava dei defunti.

Il primo novembre 1822, festa di tutti i Santi, stava Elisabetta con il suo spirito sollevato da Iddio con un ratto divino, trovandosi con lo spirito in una grande altezza; vedendosi circondata di luce che a sé l’univa, l’ani a veniva a perdersi in Dio, perdendo la sua proprietà. Terminata questa divina unione, tornò alquanto in se stessa, senza perdere il gran bene che godeva ancora nell’anima. In quel momento ricordò che si dava principio in quella santa giornata, all’ottavario dei fedeli defunti; si rivolse con somma premura ed impegno verso il suo Dio e lo pregò con fervente preghiera e con calde lacrime ad usare misericordia con le anime defunte. “Mio Dio” – gli disse – “degnati di darmi la chiave di quell’orrido carcere, come altre volte vi siete degnato darmi, perché io sento un desiderio grande di scarcerare dal purgatorio quelle anime sante. Vi supplico di questa grazia per gli infiniti meriti della vostra passione e morte”. Questa offerta bastò per ottenere la grazia, per essere di valore infinito. All’istante il suo Dio, per sua bontà, si degnò concederle quanto bramava e la fece arbitra delle sue misericordie; ma l’anima, in luogo di approfittarsi liberamente della grazia, con umile sentimento domandava al suo Iddio cosa doveva fare, e non ardiva neppure alzare gli occhi della mente, ma si tratteneva genuflessa avanti al Suo Divino Cospetto. Stava dunque, piena di timore, avanti al Divino Signore, non sapendo cosa doveva fare. “Va” – mi disse Iddio – “presentati a quel carcere a mio nome, reca a quelle anime la consolante nuova che presto saranno con me in Paradiso”. In quell’istante apparvero tre santi angeli, i quali accompagnarono la sua anima all’orrido carcere del purgatorio.

Il suo spirito lo vedeva sotto forma di un’ombra chiarissima, tutto risplendente di luce. Si approssimò dunque l’anima a quell’orrido carcere in compagnia dei tre santi angeli e recò da parte di Dio a quelle sante anime la compagnia nuova della loro prossima liberazione. Non è possibile il ridire l’esultazione, il gaudio, la consolazione di quelle sante anime e quanto mai grandi fossero i loro ringraziamenti per le anime purganti; in questo tempo il suo Iddio si degnò mostrarle il trionfo della Sua misericordia verso le anime purganti. Vide dunque quelle sante anime che a schiere, accompagnate dai loro santi angeli custodi, gloriose e trionfanti se ne salivano al cielo. In tutti i giorni dell’ottavario seguì lo stesso, di più in Marino dove si trovava Elisabetta, perché il duomo incluse un altro giorno di esposizione in suffragio dei fedeli defunti. Sicché in nove schiere dirsi che si spopolò il purgatorio!”.

Don Marcello Stanzione (Ha scritto e pubblicato clicca qui)

 
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