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San Camillo de Lellis e San Michele PDF Print E-mail
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San Camillo de Lellis e San MichelePer volere del padre Camillo De Lellis, nato il 25 maggio 1550 a Bucchianico in provincia di Chieti, si avvicinò alla carriere delle armi: la sua non era certo una passione. I suoi unici interessi sembravano essere i soldi e i modi più diversi per procurarseli. Combattere al servizio di qualche potente non era una garanzia di ricchezza: i soldi erano pochi, ma relativamente facili e in fondo la vita militare, tra una battaglia e l’altra, non era poi così malvagia. Locande dove il vino scorreva a fiumi, donzelle che non mostravano alcun podere nel rendere gli altri partecipi delle proprie grazie. Così Camillo partì alla volta di Venezia insieme a suo padre, abbandonando l’Abruzzo che gli aveva dato i natali. Sfortunatamente il padre, da sempre guardato come modello di virilità, morì prima di arrivare a destinazione, facendo solo in tempo a lasciargli in eredità la propria spada. Ma in Camillo non albergavano né il senso dell’onore, né l’amor patrio: una spada era solo e pur sempre una spada. Così rimase solo, ... 

...  con un fastidioso problema al piede, una vescichetta che, pur non essendo nulla di grave, lo costringeva a zoppicare. A Roma si fermò all’ospedale San Giacomo, ma vi trovò regole ben precise: chi non aveva malattie serie doveva lavorare per guadagnarsi le cure. E Camillo cominciò a fare l’infermiere, con il disinteresse e la superficialità che avevano contraddistinto la sua breve avventura militare. Fino a quando si ridusse in miseria.

Trascinandosi come un barbone da una campagna all’altra in cerca di cibo e assistenza, la trovò infine presso i frati Cappuccini di Manfredonia che lo accolsero come manovale, ricevendo in cambio vitto e alloggio. Ma gli arrivò anche qualcosa in più da quell’esperienza: la scoperta di sé, della sua interiorità, di quanto avesse e si fosse perso fino ad allora. La vescichetta al piede continuava a tormentarlo, anzi col tempo si era trasformata in una piaga a causa del suo peregrinare, che si apriva e richiudeva scandendo i giorni della sua vita.

Decise di lasciare Manfredonia per farsi curare definitivamente e tornò all’ospedale romano che aveva accolto la sua prima esperienza di infermiere. Le cose erano diverse adesso. Camillo era profondamente diverso. Ora i suoi capi sono gli infermieri, i derelitti, i casi senza speranza. E’ lui a cercarli, a implorare di poterli aiutare, la loro sofferenza diventa la sua: “Sono impegnato a curare nostro Signore Gesù Cristo” rispondeva a chiunque lo reclamasse. E a farlo erano in molti.

Il suo zelo, l’impegno costante, quel passo strascinato erano ormai noti, persino a Roma dove i grandi e i potenti lo richiedevano per le proprie malattie. Ma Camillo non ci andò mai. Aveva già abbastanza pazienti fra gli umili.

Durante il Giubileo del 1575 gli ospedali si ritrovarono a traboccare a causa dei pellegrini ammalati accorsi a Roma: sembrava che il loro numero fosse destinato a crescere all’infinito. Fu allora che Camillo ebbe l’intuizione che consegnerà il suo nome alla storia dell’umanità: istituire i “Ministri degli Infermi”, un ordine interamente dedicato alle cure dei poveri e degli ammalati. Camillo prese gli ordini e si rivestì di un abito talare su cui si distinse il simbolo che avrebbe attraversato secoli per giungere fino a noi: una croce rossa come il fuoco che circondava Cristo nella forma e il sangue nel colore.

A partire da quel momento l’arrivo di quella croce, ovunque si trovassero dolore e sofferenza, sarebbe stata come la luce di un faro. Gli uomini con la croce rossa sul petto erano un esercito di nuovi crociati: nel 1596 Camillo, un soldato che “voleva avere un cuore grande come il mondo”, poté guidare il suo personale drappello, formato da più di trecento uomini e che oggi agisce in 27 paesi dei 5 continenti, davanti al pontefice Sisto V, che alla fine riconobbe ufficialmente la sua crociata. Camillo invocava spesso l’aiuto degli Angeli santi.

Onorò in particolare l’Arcangelo san Michele, che gli era stato patrono dalla nascita, ricevendo il battesimo nella chiesa parrocchiale di Bucchianico intitolata al Principe delle milizie celesti. E più ancora per l’aiuto ch’ebbe da lui, ai piedi del monte Gargano presso il Santuario del Santo Arcangelo, quando si convertì a Dio. Lo prese a speciale patrono del suo Ordine, per essere affidata a S. Michele la difesa delle anime, specie nell’ultima loro battaglia col demonio. Camillo avrebbe voluto pronunciare i santi voti il giorno di san Michele. Ogni anno per la sua festa – quand’era a Roma – andava a celebrare alla sua chiesa, presso san Pietro.

Desiderò che l’Arcangelo fosse raffigurato nel quadro del Crocifisso, che si fece dipingere nell’ultima sua infermità, in  atto di cacciare il demonio all’inferno.

Nel testamento spirituale dispose di lasciare l’intelletto a san Michele perché lo difendesse dalle tentazioni contro la fede. Prego voi, san Michele Arcangelo, che vi degniate rispondere per me e pigliar la difesa dell’anima mia e dell’onor di Dio, scacciando i maligni e cattivi spiriti al fondo dell’inferno. Nutrì tenera devozione all’Angelo Custode, invocandolo spesso, e meritando che gli venisse più volte in aiuto.

Viaggiando, nel 1606, da Genova a Firenze, corse pericolo di affogare, tra Sarzana e Pisa, nella maremma. Alle invocazioni di Camillo al suo Angelo Custode, si presentò all’improvviso un grazioso giovinetto che prendendo alle briglie il cavallo del Padre, guidò lui e i compagni sulla buona strada, scomparendo poi al’istante. Continuando il viaggio cadde presso Acquapendente da cavallo, rimanendo con la gamba malata sotto il ventre della bestia. Impotente a liberarsi, invocò di nuovo l’aiuto del suo Angelo, ed ecco presentarsi quattro robusti contadini, che sollevandolo con molto grazia da terra, lo rimisero in sella. Ciò fatto, salutato il Santo, disparvero. Nel testamento spirituale , egli lascia al suo Angelo Custode la memoria, ringraziando Dio di averlo favorito della custodia di lui in tanti pericoli di anima e di corpo. E voi, o Angelo santo, ancor vi ringrazio di tanti favori fattimi, e vi prego, adesso più che mai, che vogliate favorirmi , dandomi animo, aiuto e forza acciò pervenga all’ultimo mio felice fine, e voi possiate avere gloriosa vittoria dell’anima mia, appresso Dio, della custodia fattami in tutta la mia vita. Invocava gli Angeli Custodi dei malati e dei moribondi che assisteva, e passando per qualche città o paese si raccomandava agli spiriti celesti ai quali erano affidati quei luoghi.

Durante l’ultima Messa (14 luglio 1614) che ascoltò sul letto di morte, mentre il celebrante recitava il Credo, Camillo seguiva, accennando col capo, ogni articolo, in particolare dal “passus sub Pontio Pilato” a “inde venturus est”. Al momeno dei vivi, Fratelli, invocò con una voce gli rimaneva – fratelli, aiutatemi: adesso è tempo! Orazione, orazione acciò mi salvi. Il giorno innanzi si era fatte leggere le “proteste della fede”, suggerite e probabilmente dettate da lui stesso.

Dopo aver disposto, a gloria di Dio e in riparazione dei suoi peccati, di ogni potenza dell’anima e del corpo, soggiunse: Lascio tutto l’intelletto mio a san Michele Arcangelo, protestando che non intendo discutere, né disputare con il demonio nelle cose della fede: ma intendo credere fermamente tutto quello che crede la santa Madre Chiesa Cattolica Apostolica Romana e tutto quello che si contiene nel credo, con tutte le cattoliche esposizioni, decisioni e determinazioni fatte dai santi Padri e Dottori e confermate dai santi Concili, ed in quella stessa fede intende vivere e morire, nella quale sono vissuti tutti i Santi e Sante di Dio, vivere e morire sempre confessando d’essere soldato di Gesù Cristo crocifisso. Se il demonio mi tentasse, non intendo voler acconsentire a niuna sua tentazione; e , caso che per curiosità d’animo titubassi o acconsentissi, ora per allora intendo che sia nulla, e adesso che sono di retta mente cancello e annullo, né voglio che detto consentimento sia di alcun valore, e prego voi, san Michele, che vi degniate rispondere per me e pigliar difesa dell’anima mia e dell’amor di Dio, scacciando i maligni e cattivi spiriti al profondo dell’inferno…

Tenne sempre queste proteste presso di sé e ordinò che gli venissero poi legate al corpo dentro la bara. Il santo morì a Roma il 14 luglio 1614.

Don Marcello Stanzione

 
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