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E' necessario un ritorno alla virilità PDF Print E-mail
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E' necessario un ritorno alla virilitàAnche oggi consueta scena di ordinaria, devastante indulgenza paterna nel corso della messa domenicale. La pietosa sceneggiata del solito Peter Pan di mezza età in pauroso deficit di assertività, intento a mercanteggiare, con tanto di sorriso beota stampato in volto, coi capricci e le manfrine infantili del figlioletto urlante mi ha consegnato una volta di più un’ineluttabile verità: sono tramontati da un pezzo i tempi in cui il duo kattoliko Papini-Giuliotti poteva permettersi di inneggiare all’«omo salvatico». Non è certo un mistero, e i lettori di questo blog lo sanno bene, come alla sposa “non sottomessa” faccia da pendant l’uomo-bambolotto, il maschio devirilizzato e, proprio per questo, facile preda non solo degli istinti belluini e della dittatura ormonale ma anche di un nutrito inventario di paure come depressione, insicurezza, ansia. Un uomo che forse mai come prima si ritrova desolatamente sfiduciato, insicuro di sé e pieno di complessi, debolezze, timidezze. Vistomi aggredito ...

...   dalla disperazione più nera, la Provvidenza mi è corsa in soccorso recapitandomi nelle mani un formidabile antidoto, nonché uno strumento indispensabile per orientarsi sulle cause e le dinamiche di questa “mutazione antropologica” del maschio contemporaneo. Parlo dell’agile volume dello psicoterapeuta Roberto Marchesini, Quello che gli uomini non dicono. La crisi della virilità (Sugarco, 2011, prefazione di Claudio Risè).

La tesi di Marchesini è semplice e lineare: la crisi della virilità maschile è una crisi d’identità. L’uomo non sa più chi è, come deve essere, quale sia il suo ruolo. Nel libro Marchesini ci ricorda come le lingue classiche, latino e greco, possedessero termini differenti (homo e anthropos) per indicare l’uomo in quanto maschio, laddove vir e aner rimandano invece alla vocazione realizzata, al dover essere dell’uomo, ossia all’eroe. Vir, da cui non casualmente deriva «virilità», è il possessore della virtus nel suo duplice senso di forza e virtù, di dotazione fisica  e morale. Il cristianesimo, fedele al principio teologico per cui la grazia perfeziona la natura umana senza però abolirla, vedrà nella virtù della fortezza, intesa come fermezza d’animo nell’assolvimento del proprio dovere, la condizione indispensabile per l’esercizio di tutte le virtù.

Se ci si riflette, la fortezza in fondo è anche uno dei princìpi-cardine della cavalleria. Così scrive Romano Guardini a proposito dell’uomo cavalleresco: «Dallo spirito del vero uomo, spirito diritto, forte e puro, disinteressato e nobile, sicuro, serio e allegro nello stesso tempo, deve anche derivare la consapevolezza della propria nobiltà. Perché che cosa significa essere nobile? Avere in sé più responsabilità degli altri. Significa sapere che l’onore è lo scopo delle nostre azioni, sapere che il nostro posto è dove c’è pericolo. Che, in fondo, c’è un unico nemico: ciò che è volgare». 

Ma l’eclissi della virilità porta con sé anche la crisi del padre (il “padre assente”). Il padre è per il figlio un sacerdote della virilità, l’iniziatore ai segreti di quel culto tipicamente maschile che è il culto del coraggio e del sacrificio di sé. La virilità è la religiosità della fedeltà ai propri valori. L’autorità (auctoritas da augere, accrescere) del padre ci consegna un ordine di valori eterni, superiori alla nostra singola esistenza. L’oblatività paterna è un’introduzione a quello spirito di sacrificio cui allude San Paolo nella Lettera agli Efesini: «E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso» (Ef 5, 25-28). È l’esempio paterno, educandoci alla rinuncia, a rivelarci il meraviglioso e sconvolgente segreto su cui poggia il connubio tra la sottomissione della sposa e il sacrificio dello sposo. Il sacrificio, la disposizione a dare la vita per la propria sposa e per la propria famiglia è il fondamento della religione virile. «La madre – scrive Marchesini – insegna a vivere; il padre insegna a morire, dopo aver dato uno scopo alla propria vita». Avere delle ragioni per vivere è anche possedere delle ragioni per morire. Come scrive Thibon, «colui che sa per cosa vive non ha bisogno di domandarsi perché vive».

La virtù della forza non consiste tanto nell’attaccare quanto nel resistere, non nel sopraffare ma nel sopportare: avere la forza di dare la propria vita per amore della vita stessa, questa è l’essenza del sacrificio. Ed è il pater-vir a insegnarci il «coraggio di avere paura» (F. Hadjadj), a infonderci, come cantava il Signor G, «il senso del rigore, il culto del coraggio». Dal papà abbiamo appreso che la storia della nostra esistenza «si potrebbe chiamare appunto resistenza».

La paura può essere dominata e sconfitta. E la presenza educativa del padre è di decisiva importanza ai fini della trasmissione di questo messaggio. Marchesini evoca a questo proposito un gioco tipicamente paterno: quello nel quale il padre lancia in aria il figlioletto per poi riprenderlo. E il bambino, di norma, ride. Non piange, perché c’è il sorriso del padre a rassicurarlo. Tra quelle braccia che lo attendono in volo germoglia la speranza. Con quel lancio e quella ripresa il genitore è il primo a ripeterci quell’invito, «non abbiate paura», che ci giungerà dall’unico uomo che abbia trovato la strada per uscire da un sepolcro. L’umana speme infusaci dal padre terreno è una freccia puntata in direzione della divina speranza del Padre celeste.

Ha scritto Chesterton che «solo, fra tutte le religioni, il Cristianesimo ha aggiunto il coraggio alle virtù del Creatore. Il solo coraggio degno di essere chiamato coraggio deve necessariamente significare che l’anima passa per un punto di rottura – e non si rompe».

Per questo il cristianesimo non è un trastullo spirituale per “invertebrati” e “signorini soddisfatti”, ma una religione per cuori impavidi, per spiriti coraggiosi. In una parola, come scrive sempre Marchesini, è «una religione per uomini veri»: la religione del Padre giusto, buono e misericordioso.

Un “ritorno al virile” è l’unica ricetta che possa trasformare il Desperate Houseman dei nostri tempi nel Mister Right atteso da ogni aspirante sposa sottomessa.

Andreas Hofer

dal blog di Costanza Miriano: http://costanzamiriano.wordpress.com

Non immaginate che gioia ricevere questa bella riflessione di Andreas, che, oltre a mettermi un buonumore incoercibile al pensiero di quale intelligenza circola tra le nostre fila, mi conferma anche in quello che sto scrivendo nel mio libro dedicato agli uomini (per il quale, ammettiamolo serenamente, sto procedendo pressoché a caso). Grazie Andreas! C.M.

 
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