Il tema dell’apocalisse: paura del 2012? |
Il tema dell’apocalisse ovvero della fine del mondo ha sempre affascinato le varie generazioni che fin dall’antichità si sono succedute sulla nostra Terra: un sito protestante americano ha messo in fila ben duecentoventi previsioni sulla fine apocalittica del nostro pianeta che hanno caratterizzato l’era cristiana. Stavolta non sono i Testimoni di Geova, noti per il loro approccio grossolano e fondamentalista al testo biblico ad annunciare come imminente la fine del mondo, ma quelli della New Age. La musica però è un po’ sempre la stessa: terremoti, inondazioni, pestilenze, guerre, cataclismi celesti e via dicendo, per giungere finalmente alla felice instaurazione di un ordine nuovo creato direttamente da Dio. Lo scrittore statunitense di origine messicana José Arguelles, guru della New Age e “profeta” dei Maya e della fine del mondo nel 2012, è morto però prima della fatidica data del 21 dicembre 2012, negli USA all’età di 72 anni. Arguelles è stato il primo a parlare del 21 dicembre 2012 come ... ... data della fine del mondo nel libro “Il fattore Maya”, pubblicato negli Stati Uniti nel 1987 quando egli aveva 48 anni ed in Italia nel 1999 dall’editrice WIP di Bari, l’unica autorizzata dall’autore. Arguelles presentava nel libro tradotto in 23 lingue un’analisi della storia del ciclo della civiltà umana dal punto di vista Maya, ricordando che nel 21 dicembre 2012, secondo una profezia, sarà il cambiamento tanto sconvolgente dell’umanità da poter addirittura scomparire. Dal suo libro ha tratto ispirazione il film “2012” del regista Roland Emmerich apparso nelle sale nel 2009. Ma secondo altri studiosi dei Maya, la data è sbagliata. Arguelles è stato il fondatore nel 1983 del movimento Planet Art Network, un’organizzazione per la pace che fonde arte e spiritualità al fine di raggiungere una meta politica mondiale, considerata in prima fila nella diffusione della New Age. Indubbiamente una delle cose più interessanti che sono state scoperte sui Maya è che essi, nonostante i loro mezzi primitivi erano esperti astronomi e avevano elaborato un sistema perfetto di calcolo del tempo e dei cicli cosmici. I loro intellettuali, sacerdoti e sciamani, salivano sulle altissime piramidi che svettavano sulla foresta e di lì osservavano attentamente gli astri del cielo. Non sappiamo di quali strumenti di osservazione si servissero, certo è che in un’epoca in cui le altre civiltà erano a un livello infinitamente inferiore di sviluppo, i Maya avevano individuato e calcolato con esattezza l’anno solare e i cicli lunari e avevano scoperto l’allineamento del nostro sistema solare con il centro della nostra galassia (la Via Lattea), evento che si verifica ogni 26.000 anni. Una scoperta talmente avanti rispetto ai loro tempi da fare ipotizzare a José Arguelles – indipendentemente dalla scoperta di colui che è stato forse un po’ frettolosamente chiamato l’astronauta di Palenque – che i Maya (quantomeno i primi) non fossero originari di questo pianeta ma fossero addirittura degli extraterrestri. Come mai, si chiedeva Arguelles, i Maya che diedero inizio alla loro civiltà non prima del terzo secolo d.C. avevano un calendario che iniziava in una data corrispondente al nostro 13 agosto 3113 a. C.? “Questo calendario”, argomentava l’ideologo new age , “prende il nome di Grande Ciclo e inizia appunto nel 1331 a.C. per finire nel 2012 d.C.? Perché i maya avevano un calendario che iniziava nel 1331 a.C. se la fioritura della loro civiltà avvenne solo nei primi secoli del primo millennio dopo Cristo?”. Il calendario maya è molto complesso. Esso si basava su un ciclo di 260 giorni, chiamato Tzolkin: a tanto corrispondono i nove mesi della gravidanza, lo stesso dicasi per il periodo che intercorre tra la semina del mais, l’alimento principale dei Maya, e il suo raccolto. Questo ciclo, considerato sacro, serviva inoltre come base per il calcolo delle eclissi e del moto del Sole, della Luna e dei pianeti. Si applicava quindi al ciclo umano, a quello della natura e a quello celeste, era una chiave per unire cielo e terra, alto e basso, microcosmo e macrocosmo. C’era poi il calendario Haab di 360 giorni, al quale si aggiungevano 5 giorni all’anno solare di 365 giorni che i Maya conoscevano benissimo; e c’era infine il ciclo minore di 52 giorni, derivante dall’interazione dei due calendari sopra descritti. La data di inizio si ripeteva ogni 52 giorni in cui i Maya festeggiavano l’inizio del nuovo ciclo con una cerimonia chiamata del “Fuoco Nuovo”. Accanto a questi cicli annuali, i Maya svilupparono quello che chiamarono il Lungo Computo che copre circa 5200 anni solari pari cioè a circa 5125 anni del calendario gregoriano. In base alle loro particolari conoscenze, essi avevano infatti suddiviso il nostro tempo in cinque epoche, ed erano convinti di vivere nella quinta età del Sole. Le quattro età precedenti si erano concluse, secondo i loro calcoli, a causa di spaventosi cataclismi che avevano distrutto quasi tutto ciò che esisteva, lasciando in vita solo pochissimi individui in grado di ricominciare. La quarta età, a quanto sembra, si sarebbe conclusa con quello che è ricordato in tutte le antiche tradizioni e mitologie, la nostra compresa, come “il diluvio universale”. La quinta età, in base alla cronologia maya, sarebbe iniziata il 12 agosto del 3114 avanti Cristo, epoca che vide gli inizi della scrittura egiziana (i geroglifici), e si concluderà il 21 dicembre 2012 dell’era cristiana, solstizio d’inverno, quando il nostro Sole sarà di nuovo allineato con il centro della Via Lattea. Ciò significherà, secondo Arguelles, la fine di quello che per i Maya era il Grande Ciclo, o Lungo Computo. E’ necessario sottolineare che molte teorie di Arguelles, scaturiscono da visioni che egli avrebbe avuto, come sinceramente ha egli stesso dichiarato nei suoi stessi libri, dall’uso massiccio di LSD… Dunque, riprendendo le ipotesi Maya, questi fantomatici cicli di anni, denominati bantu, dovrebbero arrivare a quota tredici nel dicembre 2012. Indipendentemente dalle varie ipotesi che portano tutte però, guarda caso, a far convogliare le previsioni al 2012, in questa sede è opportuno richiamare la posizione dello studioso delle religioni Massimo Introvigne secondo cui nessun specialista Arguelles o le sue teorie attorno al 2012. Ma è poi vero che nel 2012 verrà il nero? Torna in nostro soccorso Introvigne secondo cui, ai testi del sito archeologico maya di Tortuguero (Messico) ci sarebbero riferimenti ai bantu dal quattordicesimo al ventesimo, ciò significherebbe, pertanto, che i Maya dell’epoca – VII secolo d.C. – non prevedevano la fine del mondo per il 2012… Da più parti gli studiosi non ravvedono alcun fondamento scientifico a simile teoria. Sconfiniamo negli scenari da X-Files poi entrando nella strana logica dei cosiddetti Maya Galattici di cui ha parlato il guru Arguelles, in riferimento a presunti “viaggiatori del tempo e dello spazio”, che sarebbero arrivati sulla terra e poi si sarebbero dati alla fuga dal momento che erano al corrente dell’avvicinarsi dei empi bui… Gli autori del libro 2012, Catastrofismo e fine dei tempi, Riccardo Cascioli e Antonio Gaspari, affermano che i Maya avessero conoscenze di astronomia avanzata” e si può soltanto asserire che essi furono “grandi osservatori del cielo notturno, ma nulla più”. Gli autori continuano ribadendo che “non si ha neppure certezza che i Maya avessero un’astrologia”. Solo congetture quindi? Può darsi. “E infatti – concludono –le attuali tribù maya non aspettano affatto la fine del mondo per il 2012”. E’ bastato un film, il kolossal americano dal titolo “2012”, per risvegliare nel cervello di molti l’ansia spasmodica della fine del mondo. La fonte stavolta non è la Bibbia ma il calendario degli antichi Maya e una data precisa: il 21 dicembre 2012. In questo giorno, per la prima volta dopo 26 mila anni, il sole si troverebbe allineato con la Via Lattea e questo dovrebbe scatenare…l’apocalisse. Naturalmente, commentando queste cose i termini “apocalisse” e “apocalittico” sono i più ricorrenti: quale libro, infatti, si dice, è il più accreditato a fornire preziose e sicure informazioni sulla fine del mondo se non l’Apocalisse? Ma chi ragiona così… non ragiona affatto: l’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse di san Giovanni appunto, non è il libro della fine del mondo, ma piuttosto il libro…del fine del mondo! Non è da leggersi come un oroscopo che svela il futuro, ma come una riflessione sul presente alla luce della fede e della speranza cristiana. Scrive il celebre biblista il cardinale Gianfranco Ravasi in proposito: “Si apre una porta del cielo e Giovanni è invitato a oltrepassarla. Gli vengono mostrate “le cose che devono accadere”. Non già un’anticipazione degli eventi, ma piuttosto la visione del senso che li guida e collega in unità. L’Apocalisse non appaga il desiderio curioso di sapere il futuro, né intende rivelare ciò che Gesù ha tenuto nascosto, cioè la fine del mondo. Offre piuttosto dei criteri di valutazione e discernimento della storia. Non è la cronaca che affascina il veggente di Patmos, ma una lettura sapienziale degli eventi alla luce della morte e risurrezione di Gesù Cristo. Giovanni scrive per incoraggiare e sostenere le comunità ecclesiali del primo secolo e non lo fa in astratto, ma a partire dalla loro concreta e sofferta situazione”. La curiosità morbosa sulla fine del mondo è una strana aspirazione, in qualche modo innata, ancestrale, che periodicamente si presenta. Possono variare le motivazioni scatenanti questo desiderio, i contenuti particolari, le narrazioni e le cosiddette profezie, ma la dinamica di fondo rimane sostanzialmente la stessa: si sogna e si attende, dopo una terribile ma salutare e purificatrice catastrofe (quindi, alla fine, da… desiderare), una prodigiosa trasformazione, una mirabile palingenesi che ricrei l’universo e lo liberi per sempre da tutti i suoi mali. Questa proiezione irrazionale verso un futuro paradisiaco nasce massimamente dalla percezione dolorosa del fallimento del presente, dal disgusto della propria esperienza di vita, dalla incapacità a decifrare e ad affrontare con realismo, intelligenza e coraggio la quotidianità dell’esistenza. L’insopprimibile aspirazione dell’uomo alla felicità, quando deve fare i conti con un mondo come il nostro segnato dalla caduta delle grandi ideologie, dalla cosiddetta crisi della modernità, dall’insicurezza, trova una facile scorciatoia nella fuga verso un futuro utopico. Quanto più difficoltoso e complesso appare il quotidiano, tanto più forte diventa il desiderio di una rinascita utopica, fascinosa e soprattutto gratuita, che scenda miracolosamente dal cielo senza il nostro contributo. Anche i cristiani, in quanto inseriti nel mondo, non sono per nulla esenti da questa aria culturale che si respira un po’ ovunque. Tanto più che nel panorama simbolico della fede vi sono immagini e messaggi che, se non sono adeguatamente compresi nel loro significato biblico ed ecclesiale, possono essere facilmente travisati in chiave utopica, irrazionale e superstiziosa. L’attuale impressionante proliferare delle apparizioni mariane, dei messaggi “apocalittici”, dei segreti dei prodigi, che riflettono in sostanza uno struggente desiderio di cambiamento e di felicità, sono eloquenti segnali di una religiosità che rischia di diventare fuga da una realtà diventata sempre più complessa e insopportabile. Meglio allora rifugiarsi nell’illusione , meglio sognare e fantasticare, che confrontarsi coraggiosamente con la quotidianità della vita. Basti ricordare al riguardo la diffusissima e ambigua letteratura, fiorita in campo cattolico e benevolmente tollerata e persino raccomandata dai pastori, attorno al famoso “terzo segreto di Fatima” prima della sua “rivelazione”. E’ stata provvidenziale tutta l’acutezza e la ponderatezza teologica, certamente poco incline all’emotività, dell’allora cardinale Joseph Ratzinger per interpretare questa “rivelazione privata” alla luce dell’unica e insostituibile “Rivelazione pubblica”, e per porre fine (speriamo!) a mille speculazioni fantasiose che poco o niente avevano a che fare con il Vangelo. Nel “Commento teologico al Messaggio di Fatima”, il futuro Benedetto XVI, allora Cardinale Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, sicuramente non a caso, citava una sferzante ammonizione di san Giovanni della Croce, contenuta nella celebre opera “Salita al Monte Carmelo”, e riportata anche nel Catechismo della Chiesa cattolica: “Dal momento in cui ci ha donato il suo Figlio, che è la sua unica e definitiva Parola, (Dio) ci ha detto tutto in una sola volta in questa sola Parola… Infatti, quello che un giorno diceva parzialmente ai profeti, l’ha detto tutto nel suo Figlio, donandoci questo tutto che è il suo Figlio. Perciò chi volesse ancora interrogare il Signore e chiedergli visioni o rivelazioni, non solo commetterebbe una stoltezza, ma offenderebbe Dio, perché non fissa il suo sguardo unicamente in Cristo e va cercando cose diverse e novità”. Per meglio approfondire la tematica apocalittica sul 2012, mi permetto di segnalare ai lettori l’opuscolo che ho scritto con Irene Corona dal titolo: “ 2012. Cosa ci aspetta” edito dalla casa editrice Segno di Udine. Don Marcello Stanzione |
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