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Il pacifismo, nemico della giustiziaL’uomo ha insito nel suo animo l’anelito fondamentale all’ordine, alla conservazione ed alla stabilità, e questo si concretizza oggettivamente in un giustificato desiderio di pace, intesa come assenza di contrasti sia caratteriali che fisici: è evidente che il litigio (tantopiù la guerra) fine a sé stesso non è mai desiderabile, tranne che per casi umani degenerati o patologici. Il problema assoluto è però che l’uomo, per sua natura, è dotato di libero arbitrio, facoltà che lo pone di volta in volta, durante la sua vita, innanzi alle scelte e, in questo caso, all’interrogativo titanico: “pensare al bene comune o agire solo nel proprio interesse?”. Egoismo e solidarietà sono le due grandi aspirazioni tendenziali che nella vita degli uomini combattono la strenua battaglia; quando prevale l’uono, quando prevale l’altra. È normale che, senza sforzi eroici, si possono ben conciliare entrambe le tendenze, assumendo un comportamento non incomunicabile con la vita comunitaria e non ...

… accomunabile all’egoistica sopraffazione, ma non si sarà mai in questo modo “santi” sacrificatisi per una causa estrema di disperato amore. Ora però è possibile, anche se deprecabile, che un uomo, un consorzio sociale, una nazione, scelgano la via dell’egoismo, in uno sforzo immanentista di conquista del proprio bene materiale a discapito del bene del prossimo.

Due scuole di pensiero si contrappongono, in questi casi: il pacifismo e l’etica comune, dettata dal naturale istinto di sopravvivenza e dall’anelitò di giustizia, dell’autodifesa.

Il primo pensiero asserisce che non vi è soluzone ai problemi nell’applicazione della forza, e che, essendo il cuore dell’uomo profondamente buono, unicamente la non-violenza possa guadagnare alla causa dell’umanità la pace, l’aguaglianza e, a ben guardare, il bene comune.

Oggettivamente il pacifismo, ben al di là di un auspicabile e necessario temperamento pacifico, non considera (o non vuole considerare) due elementi imprescindibili del comportamento umano: la strenua volontà di difendere ciò che appartiene di diritto (anche detta “giustizia”) e la necessità di avversare con ogni mezzo un’ingiustizia, in extremis anche con l’utilizzo della forza, considerando che la sopraffazione non accetta ragioni, se non i propri calcoli ed il proprio tornaconto.

In questo caso l’autodifesa, o azione di difesa di un diritto, è da considerarsi non quale violenza, ma quale utilizzo legittimo della forza.

Spesso il prezzo della pace è troppo alto: arrendersi e retrocedere dinanzi al sopruso può voler dire accettare e giustificare il sopruso stesso, sino al punto di permettergli di reiterarsi, o può significare ulteriori privazioni immeritate e restrizioni e limitazioni di ciò che altrimenti sarebbe dovuto.

Nel manifesto Einstein-Russel contro il conflitto nucleare, ad esempio, è esposta l’idea seconda la quale, per garantire l’autoconservazione della specie umana, le nazioni avrebbero dovuto sacrificare la propria autonomia e sovranità in favore di un ente sovrannazionale.

All’occhio critico di chi ormai ha superato l’epoca della tensione nucleare e della Guerra fredda è evidente che un documento del genere suonasse un appello del mondo civile ai popoli tutti a rinunciare al loro diritto all’autodeterminazione per federarsi in un governo mondiale (magari allineandosi al blocco occidentale?

Magari accettando senza indugi la socialdemocrazia, come forma progredita di governo?) che inglobasse universalisticamente l’umanità.

Se poi consideriamo che Bertrand Russel (firmatario di questo documento) non facesse neanche tanto mistero delle sue tesi malthusiane in favore dello spopolamento radicale del Terzo Mondo, della sua avversione all’etica cristiana, e del suo sostegno verso la società liberal-capitalista in un’ottica progressista, comprendiamo come in realtà il pensiero pacifista celi quantomeno una profonda demagogia, quando addirittura un doppio fine non dichiarato.

Orazio Maria Gnerre

 
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