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Christian Andersen e gli AngeliHans Cristian Andersen (Odense 1805- Copenaghen 1875) è lo scrittore danese più famoso al mondo. Di umile origine (il padre faceva il ciabattino, la madre finì in un ospizio per alcolizzati), nel 1819 si stabilì a Copenaghen, dove poté studiare danza e canto e poi frequentare l’università grazie a protettori generosi, come il musicista italiano G. Siboni e specialmente J. Collin. Ma la sua restò la preparazione di un  autodidatta d’ingegno, alimentata da avidissime letture; importante il precoce contatto letterario con la narrativa di E. Hoffman. Il suo esordio avviene  con “Agnese e l’uomo del mare” (1833-34), ma già nel 1829 A. aveva preso a pubblicare, sul modello di Heine, diari dominati dalla produzione favolistica, per es. “L’improvvisatore”, storia di una gioventù stentata come la sua, lo scrittore pervenne finalmente alla notorietà. Ma rendendo celebre in tutto il mondo, e tradotto in più di trenta lingue, saranno le “Fiabe”: la prima raccolta risale al 1835-37, altre seguirono negli  ... 

...  anni 1844-45, 1858-66 e successivi al 1872, per un totale di 156 fiabe. Le fiabe più antiche (Il compagno di viaggio, Il piccolo Claus e Il grande Claus, I cigni selvatici) risultano derivante da motivi della tradizione popolare scandinava, ma poi Andersen. si volse decisamente alla fiaba letteraria, utilizzando materiali disparati (Gli abiti nuovi dell’imperatore viene, per esempio, dalla Spagna).

Espresse così – in una lingua svariante dai genuini modi quotidiani a raffinatezze persino leziose – ora il sopramondo della féerie. (La collina degli elfi, Il folletto della piccola Ida, Il rospo, L’usignolo) e addirittura certi rapporti arcani che egli sapeva cogliere tra gli oggetti più prosaici (L’ago da rammendo, Il vecchio fanale, La goccia d’acqua, Gli stracci). Parecchie fiabe tradiscono spunti autobiografici, come La sirenetta o L’intrepido soldatino di stagno o La pastorella e lo spazzacamino, che contrappongono al sogno la tenace malinconia della vita vera e alludono alle delusioni amorose dello scrittore. La matrice autentica di queste fiabe risiede tuttavia nell’ambizione di sostituire al mondo dell’esperienza una sorta di copia o d’automatico facsimile, che però non si costituisce in realtà autonoma, giacché l’autore ne mostra spietatamente il carattere labile e ambiguo; il povero soldatino mette in caricatura il trionfo orgoglio militaresco, ma anche lui non combatterà “altre” battaglie, finirà liquefatto, dissolto.

Collocata in questo contesto, l’ispirazione di A. appare essenzialmente religiosa, e di una religiosità più attenta ai segnali della morte che a quelli della salvezza. Anche il lieto fine, quando c’è, rischia di suonare reversibile: la felicità del “brutto anatroccolo” trasformato in cigno serve a capire che la felicità vera era poi quell’altra, di quando guazzava nel fango, vicino alle radici del mondo.

Numerosi sono gli autori di fiabe e racconti brevi che sono rimasti affascinati dalle figure degli angeli e ne hanno raccontato le storie. Certamente Hans Christian Andersen , uno degli autori per ragazzi più fecondo, ne ha descritto uno in modo molto delicato ed elegante. La fiaba si intitola “L’angelo” ed è stata scritta nel 1844, eccola: “ Ogni volta che un bambino buono muore, scende sulla terra un angelo del Signore, prende in braccio il bimbo morto, allarga le grandi ali bianche e vola in tutti i posti che il bambino ha amato; poi coglie una manciata di fiori, che porta a Dio, affinché essi fioriscano ancora più belli che sulla terra. Il buon Dio tiene i fiori sul suo cuore, ma a quello che ha più caro di tutti dà un bacio, e questo riceve la voce e può cantare nel coro dei beati. Tutto questo veniva raccontato da un angelo del Signore mentre portava un bambino morto in cielo, e il bambino lo sentiva come un sogno; e volavano per la casa, nei luoghi dove il bambino aveva giocato, e poi nei deliziosi giardini pieni di fiori bellissimi. “Quale dobbiamo prendere da piantare in cielo?” chiese l’angelo. Nel giardino si trovava un alto roseto, ma un uomo cattivo aveva spezzato il fusto, così tutti i rami pieni di grandi gemme sbocciate a metà, si erano piegati e appassivano. “Povera pianta”, disse il bambino, “prendi quella, così potrà fiorire vicino a Dio”.

E l’angelo raccolse quella pianta, e diede un bacio al bambino, così egli aprì un po’ gli occhietti. Colsero quei magnifici fiori, ma presero anche la disprezzata calendula e la selvatica viola del pensiero. “Adesso abbiamo o fiori” disse il bambino, e l’angelo annuì, ma ancora non volarono verso Dio. Era notte e c’era silenzio; rimasero nella grande città e volarono in una delle strade più strette, dove si trovava un mucchio di paglia, cenere e spazzatura: c’era stato un trasloco,e dappertutto c’erano pezzi di piatti, schegge di gesso e roba scartata.

E l’angelo indicò, in tutta confusione, alcuni cocci di un vaso di fiori; lì vicino c’era una zolla che era caduta fuori dal vaso, ma che era rimasta compatta a causa delle radici di un grande fiore di campo appassito, che non valeva più nulla e per questo era stato gettato via. “Portiamolo con noi!” disse l’angelo “poi, mentre voliamo, ti raccontò perché”. E così volarono e l’angelo raccontò: “Laggiù, in quella strada stretta, in un seminterrato, viveva un povero ragazzo ammalato; fin da piccolo era rimasto sempre a letto, quando proprio si sentiva bene poteva camminare per la stanza con le stampelle, ma non poteva fare altro. In certi giorni d’estate i raggi del sole arrivavano per una mezz’ora nella stanzetta del seminterrato, allora il ragazzino si metteva seduto a sentire il caldo sole su di lui e guardava il sangue rosso che scorreva nelle sue dita sottili che teneva davanti al viso. In quei giorni si poteva dire: “Oggi il piccolo è uscito!”.

Il ragazzo conosceva il verde primaverile del bosco solo perché il figlio del vicino gli portava il primo ramo di faggio con le foglie, e lui se lo alzava sul capo e sognava di trovarsi sotto i raggi del sole che splendeva e gli uccelli che cantavano. Un giorno di primavera il figlio del vicino gli portò anche dei fiori di campo, e tra questi ce n’era per caso uno ancora con le radici: perciò fu piantato in un vaso e messo sulla finestra vicino al letto. Il fiore, piantato da una mano amorevole, crebbe, mise nuovi germogli e ogni anno fiorì.

Questo divenne il paradiso meraviglioso del ragazzo, il suo piccolo tesoro sulla terra. Lo bagnava e lo curava e si preoccupava che ricevesse anche l’ultimo raggio di sole che penetrava dalla bassa finestrella; e il fiore cresceva anche nella fantasia del ragazzo perché fioriva per lui, per lui cresceva anche il suo profumo e gli rallegrava la vita. E quando il Signore chiamò il ragazzo, egli si volse, morendo, verso quel fiore. Da un anno ormai è presso Dio, e per un anno intero il fiore è rimasto abbandonato sulla finestra ed è appassito. Per questo è stato gettato tra la spazzatura durante il trasloco. E proprio quel fiore, quel povero fiore ha portato più gioia che non il più bel fiore del giardino reale”. “Ma come mai sai tutte queste cose?” domandò il bambino che l’angelo portava in cielo. “Le so perché io stesso ero quel povero ragazzo malato che camminava con le stampelle!” spiegò l’angelo. “E conosco bene il mio fiore!”. Il bambino spalancò gli occhi e guardò il viso bello e felice dell’angelo; in quel momento giunsero in cielo, dove c’era gioia e beatitudine.

Dio strinse al cuore il bambino morto e subito gli spuntarono le ali, come all’altro angelo, e insieme volarono via, tenendosi per mano. Poi Dio strinse al cuore il mazzetto di fiori e baciò quel povero fiore di campo appassito, che subito ebbe voce e cantò con tutti gli angeli che volavano intorno a Dio: alcuni vicinissimi, altri in grandi cerchi intorno a Lui, e altri ancora molto più lontani, nell’infinito, ma tutti ugualmente felici. E tutti cantavano, piccoli e grandi, anche il bambino buono e benedetto, e quel povero fiore di campo che era appassito ed era stato gettato nella via stretta e buia, tra la spazzatura di un trasloco”.

Don Marcello Stanzione

 
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