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San Vincenzo Pallotti ed il Diavolo PDF Print E-mail
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San Vincenzo Pallotti ed il DiavoloVincenzo Pallotti nacque a Roma il 21 aprile 1795, figlio di un ricco droghiere, Pietro Paolo Pallotti e di Maria Maddalena De Rossi. Dei suoi nove fratelli, cinque morirono in tenera età. Vincenzo fu influenzato dalla vita devota dei genitori e visse nell’appartamento di famiglia fino alla morte del padre, avvenuta nel 1837. La forte devozione di Vincenzo per la B.V. Maria e un particolare interesse per i poveri, già evidenti durante la sua giovinezza, furono stimolati da una guida spirituale scelta quando aveva dodici anni, che lo incoraggiò anche in occasione di gravi pene spirituali. A quindici anni decise di diventare prete; studiò in vista del sacerdozio presso il Collegio Romano e l’università La Sapienza e fu ordinato prete il 16 maggio 1818. Due mesi più tardi gli fu assegnato il dottorato dell’università e insegnò teologia alla Sapienza per dieci anni, prima di dedicarsi interamente alla predicazione e alla guida spirituale, respingendo il prestigio di una carriera accademica e anche ...

...  la via di promozione offerta dal sistema parrocchiale. Prima di essere ordinato, aveva letto, ma Dio. Non volontà, ma Dio. Non l’anima, ma Dio…,non i beni terreni, ma Dio. Non l’onorificenza, ma Dio. Non le alte cariche, ma Dio. Non la carrira, ma Dio. Dio sempre e ovunque”. Fu nominato direttore spirituale dell’università romana nel 1827 e fu attivo anche come visitatore e confessore in vari collegi nazionali di Roma per studenti avviati al sacerdozio. Ebbe una grande determinazione nel mettersi al servizio di tutti e nell’offrirsi alla gente in modo chiaro e semplice. Si impegnò in progetti volti a rianimare le corporazioni artigianali e a fondare scuole per giovani lavoratori della città e delle campagne.

Organizzò un’opera di aiuto per le persone colpite dall’epidemia di colera scoppiata nel 1837; fu amico di soldati e prigionieri; il suo consiglio, tuttavia, sarebbe risultato prezioso anche a vescovi e papi. Fu sensibile ai cambiamenti che la rivoluzione industriale aveva portato nella vita umana, e intuì la necessità di un nuovo tipo di apostolato tra la gente. Di fronte al suo ministero spirituale e alle sue opere caritative, i romani giunsero a parlare di lui come di un secondo Filippo Neri: era ormai conosciuto come “l’apostolo di Roma”. Era profondamente preoccupato per la rigidezza delle strutture cleriali, e particolarmente per la divisione – e rivalità – tra clero secolare e regolare e per la passività del mondo laico. Nel 1835 il suo intuito di persecutore lo portò a concentrarsi sulla formazione della Pia Unione dell’Apostolato Cattolico, un gruppo di ecclesiastici e laici il cui scopo principale era il rinnovamento dello spirito apostolico all’interno della Chiesa. Vincenzo vedeva ciò come “una tromba evangelica che chiama tutti, che invita tutti, che sveglia lo zelo e la carità di tutti i fedeli, di qualsiasi stato, estrazione e condizione, per servire l’apostolato cattolico così come è stato istituito: uomini e donne, giovani e vecchi, ecclesiastici, religiosi e laici.

Era abbastanza acuto da capire che i primi passi di un’opera cos’ imponente sarebbero stati piccoli, e quindi sfruttò le opportunità che di volta in volta gli si presentarono. Comprese la necessità di formare un gruppo di preti che potessero dedicarsi a tempo pieno agli scopi del movimento stesso. Nacque così la congregazione della Società dell’Apostolato Cattolico.

Questi preti cercavano di coordinare il lavoro del clero secolare e dei religiosi, ma furono seriamente ostacolati. Un’opposizione particolare giunse loro da parte della Associazione per la Propagazione della Fede di Lione, che sosteneva che i pallottini replicavano la loro opera; la congregazione fu bloccata per un certo periodo, ma Vincenzo chiarì la situazione con papa Gregorio XVI e la soppressione venne revocata. In seguito però, scoprì che il nome “Apostolato cattolico” offendeva alcuni vescovi che consideravano “l’apostolato” una prerogativa di coloro che potevano rivendicare una discendenza diretta dagli apostoli. Questa controversia ebbe una certa risonanza e nel 1854, quattro anni dopo la morte di Pallotti, il nome venne cambiato in Pia Società delle Missioni.

Il nome originale venne reintrodotto nel 1947 in un contesto in cui era cambiata l’interpretazione dei termini missione e apostolato. Il cambiamento era stato favorito da movimenti come l’Azione cattolica, che si richiamava a Vincenzo come a un precursore. Un’istituzione femminile seguì quella maschile, conosciuta inizialmente come Sorelle dell’Apostolato cattolico. Il nome fu successivamente modificato in Sorelle Missionarie pallottine. Anche questo ordine era la risposta diretta a una necessità specifica: occuparsi delle orfanelle dell’epidemia di colera del 1837, ragazze che Vincenzo aveva accolto dalla strada e posto sotto cura di un gruppo di dame di sua fiducia. Questo gruppo diede nascita, l’anno successivo, alle Sorelle dell’Apostolato cattolico. Vincenzo divenne un caro amico del futuro cardinale Nicholas Wiseman che gli confessò i suoi dubbi alla vigilia della consacrazione a vescovo e ne ricevette un consiglio decisivo: “Monsignore, non conoscerete mai la pace perfetta che cercate finché non fonderete un istituto per le missioni straniere in Inghilterra”.

La prima persona a cui Wiseman parlò di ciò fu Herbert Vaughan, il quale infine mise in pratica il consiglio fondando la Società Missionaria di S. Giuseppe a Mill Hill. Wiseman avrebbe poi suggerito a Pallotti di contattare, con la prospettiva di farlo entrare a Roma per il sacerdozio; il progetto non si realizzò mai, anche se Vincenzo sviluppò un profondo interesse per la missione inglese e contatti con l’oratorio londinese; mandò uno dei suoi collaboratori più abili ( e suo primo biografo), Raffaele Melia, ad aprire una missione in Inghilterra e inviò altri a lavorare e a sostenere con Frederick William Faber presso l’oratorio londinese e a sostenere ivi l’oratorio sardo, la Chiesa invitò tre volte Vincenzo a recarsi in Inghilterra: i molti impegni romani lo trattennero in patria, dove lavorò in stretto contatto anche con i futuri santi Gaspare Del Bufalo (28 dic.) e Vincenzo Strambi (25 set.).

Anche questi, come Pallotti, sarebbero poi diventati fondatori e si sarebbero impegnati attivamente in opere di carità a Roma. Vincenzo venne nominato rettore della chiesa di Santo Spirito dei Napoletani, una designazione che scavalcava ecclesiastici più anziani che si offesero per la nomina, soprattutto perché le folle di poverini che si raccoglievano intorno a lui disturbavano la loro comoda routine; nei successivi dieci anni gli resero la vita difficile con una serie di infamie e meschine persecuzioni alimentate dall’invidia, a cui però egli rispose sempre con carità e pazienza incrollabili. Istituì la celebrazione dell’Ottava dell’Epifania a Roma, alla cui cerimonia conclusiva, nel 1847, partecipò il nuovo papa Pio IX.

Il gesto del papa era volto, stando alle parole di un giornale in lingua inglese pubblicato allora a Roma “a ricompensare lo zelo di Pallotti e la devozione dei membri dell’Apostolato cattolico per i magnifici risultati da loro ottenuti nelle missioni, nella propagazione della fede e per il bene fatto alla gente”. Questo tributo fu notevolissimo, dato che la Società dell’Apostolato cattolico non aveva allora uno status canonico: che Vincenzo non mancò di domandare  avanzando al tempo stesso la richiesta, quanto mai ampia, che alla sua società venissero accordati tutti i diritti che, in tempi diversi, erano stati riconosciuti a ordini e congregazioni regolari. Nel 1847 la richiesta venne accolta, malgrado la sua enorme portata. L’anno successivo papa Pio IX assicurò agli Stati Pontifici una costituzione tendenzialmente democratica, ma il primo ministro incaricato fu assassinato mentre si recava alla prima assemblea parlamentare.

La rivoluzione sorprese Roma e Pio IX fuggì in incognito verso Napoli. L’anticlericalismo della nuova Repubblica romana raggiunse proporzioni preoccupanti e Vincenzo considerò prudente cercare rifugio nel Collegio irlandese. Respinti pressanti inviti a recarsi in Inghilterra, inviò una serie di lettere a capi spirituali e secolari, religiosi cacciati dai conventi e altre personalità, lamentandosi per ciò che vedeva come i mali del tempo e proponendo al riguardo un concilio generale della Chiesa.

Pio IX tornò al potere con l’aiuto delle truppe francesi nel 1849, quando Vincenzo ormai sentiva che la sua vita stava giungendo alla fine. Con calma mise in ordine tutti gli affari della Società; a metà gennaio si ammalò di pleurite; il 20 gennaio ricevette l’estrema unzione. Due giorni dopo morì. Nei primi anni che seguirono la sua morte, tra il 1850 e il 1880, la Società si sviluppò lentamente, soprattutto per ragioni politiche. Dal 1900, però, è cresciuta fino a raggiungere 30 case distribuite in otto paesi diversi. Le suore formano un Istituto internazionale di Missione che poi prese il nome di Suore missionarie dell’Apostolato cattolico. Esse si diffusero in Inghilterra, Svizzera, Polonia e Stati Uniti, dove oggi hanno case in Virginia, nel Maryland e in Michigan.

La congregazione maschile è formata da sacerdoti e fratelli laici che seguono un periodo di noviziato di due anni promettendo poi povertà, castità e obbedienza, oltre a perseveranza e vita comune  perfetta, senza però professare voti formali. La loro missione si sviluppa molto attraverso ritiri spirituali e divulgazioni a stampa; a livello mondiale la congregazione conta su più di 2000 membri. Vincenzo Pallotti ha rappresentato una voce profetica che ha percorso i tempi.

La santità della sua vita personale era ampiamente conosciuta quando era ancora vivo e, i primi passi per la sua canonizzazione furono intrapresi nei primi due anni che seguirono la sua morte; fino a quando Pio XI non definì l’Azione cattolica “partecipazione del mondo laico all’apostolato gerarchico della Chiesa”, non furono del tutto abbandonate le riserve sugli obbiettivi di Vincenzo. Fu beatificato da papa Pio XII il 22 gennaio 1950, e le sue reliquie vennero poste in un sarcofago di bronzo e cristallo sotto il grande altare di San Salvatore. Papa Giovanni XXIII, nel 1962, disse di lui: “La fondazione della Società dell’Apostolato cattolico ha rappresentato a Roma la prima pietra dell’Azione cattolica che oggi conosciamo”.

Il 20 gennaio 1963 è stato canonizzato. E’ invocato come protettore del clero. San Vincenzo ebbe sempre una particolare sensibilità nella lotta contro il demonio Nei primi giorni del suo sacerdozio, il 26 maggio 1818, in una lettera a don Gaspare del Bufalo, sacerdote da dieci anni, scrisse: “Coraggio, operiamo, operiamo. Procuriamo di imitare sempre implacabile e sanguinosissima guerra contro il maledetto peccato; guerra, guerra, guerra, alle armi, alle armi”. E la prima opera messa in atto da lui proprio l’ “Unione Antidemoniaca”, che aveva come scopo la distruzione di tutti gli oggetti scandalosi che si trovassero nelle famiglie, nelle chiese e nelle piazze; e il 20 agosto 1818 egli aveva già pronta una lista di pitture e sculture che avrebbero  dovute essere rimosse, a meno che non si stendesse un velo di decenza sulle loro nudità. Stando alle sue parole, l’ “Unione Antidemoniaca”, che aveva un segretario e un gruppetto di ecclesiastici interessati al suo programma, era un’opera benedetta da Dio, perché approvata dal Santo Padre, ed egli ne prevedeva progressi ammirabili.

Poi gli eventi non corrisposero alle previsioni. Ci fu un incontro tra il cardinale vicario e il maestro dei Sacri Palazzi Apostolici, dopo il quale calò il sipario sull’ “Unione Antidemoniaca”. Infatti, il 21 ottobre il Santo chiese preghiere per l’ “Unione”, e quella fu l’ultima volta che la nominò. Però – e qui si scopre la sincerità della sua anima- il 6 febbraio 1820, informato da don Borti che c’era l’opportunità di acquistare sedici quadri oscenissimi, egli mandò subito del denaro per acquistarli e distruggerli,e suggerì anche i nomi di alcuni amici che avrebbero potuto contribuire a raggiungere tutta la somma necessaria.

E questo è il modo dei santi: che ci sia o non ci sia un’ “Unione Antidemoniaca” è storia degli uomini, ma distruggere degli oggetti di scandalo è gloria di Dio e salvezza di anime! La guerra contro il peccato non fu aspetto episodico della vita di don Vincenzo; fu, anzi, la sua costante.

E non deve sorprendere, perché egli vive soltanto per la gloria di Dio; sentiremo che essere infinitamente umiliato e patire infinitamente sarà per lui un Paradiso, se la sua umiliazione e i suoi patimenti saranno il mezzo di una maggiore gloria di Dio; perciò quanto il demonio si adopera per impedire e distruggere il regno di Dio, altrettanto, e più ancora, si adopererà lui per accrescerlo e restaurarlo.

Il suo pensiero venne messo in piena luce nel 1832, nel “Mese di Maggio per gli Ecclesiastici”, dove a proposito dell’esorcistato, fece dire alla Regina degli Apostoli: “Voglio insegnarti, o figlio, una dottrina che nel mondo è quasi sconosciuta, o, almeno poco considerata: ogni operazione, proprio perché fatta dall’Eterno Verbo Incarnato acquista incomprensibili gradi di dignità nella sua Chiesa; impara, quindi, a conoscere sempre più la sublimità dell’ufficio di Esorcista, proprio perché quest’ufficio fu esercitato dal divin Redentore”. Il Santo, quindi, riteneva che la pratica degli esorcismi fosse rivestita di una particolare dignità perché era stata esercitata dal Figlio di Dio e accusò l’ambiente cristiano di aver ignorato, o di non aver preso in sufficiente considerazione, un gesto segnalato del verbo incarnato. E già nel 1828, essendo stato designato esorcista per la liberazione di un sacerdote, del quale il demonio si era impossessato, per impedirgli di continuare a fare il gran bene che faceva, si preparò accusando la sua infinita indegnità, ma, forte del divino ministero, disse: “Non io ma Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito Santo comanda, o demonio, a te e ai tuoi satelliti di non sottovalutare alcun ordine.

Non farete alcun male a questo dilettissimo servo di Dio A. G.; non gli impedirete alcun esercizio di pietà e non parlerete, se non interrogati”. E concluse con questa preghiera: “ O Signore del cielo e della terra, glorifica te stesso. Glorifica la SS Vergine Madre concepita senza peccato, glorifica gli Angeli, glorifica i Santi, glorifica tutte le tue opere con il tuo eterno, e colma me di ignominia, di pene e tormenti tutti infinitamente moltiplicati, per tuo amore, che, per me, anche senza di me, sei mio Dio e mio tutto, e questo mi basta”. L’esorcismo ebbe luogo nella Chiesa di San Giorgio al Velabro, dal 15 al 18 agosto 1828; l’occasione durava dal 1815, l’ossesso per tredici anni si era occupato con molto frutto di missioni popolari.

La cosa che distinse questo esorcismo fi che il demonio si indugiò a mettere in evidenza gli abusi della gerarchia, dei religiosi e del popolo. Gli esorcisti – erano tre- si resero conto che l’inconsueta rivelazione non era dovuta a malignità diabolica, ma a un preciso disegno di Dio, che si serviva del demonio perché i suoi ministri prendessero coscienza dei mali, ai quali dovevano porre rimedio, e con urgenza. Don Vincenzo stese una relazione di questo esorcismo, per sottoporla al papa, ed è chiaro che tutto quanto egli sentì, si scolpì profondamente nella sua mente e guidò le scelte di tutto il suo apostolato con quella tipica universalità, zelo e ineccepibile santità, che dovevano essere le note caratteristiche della Società che stava fondando.

Il demonio diede a quei giorni il titolo di “tempo di vendemmia”, perché i preti non facevano il loro dovere, e i vescovi ordinavano dei birbanti; pochi i religiosi osservanti; molti facevano i signori, mancava la vita comune perfetta; fra i preti solo il dieci per cento faceva il proprio dovere; tra i secolari si rubava a mal salva; poca fede, facili sacrilegi, a Pasqua si burlava il confessore. Nel 1834 il Santo, dovendo fare un esorcismo nel Collegio Scozzese, mandò a chiamare un amico che desiderava di assistervi, ma l’invito fu recapitato a un rilegatore di libri, il quale, giunto al Collegio, si rese conto che c’era stato un errore, ma forse proprio perché era un miscredente, decise di fermarsi per vedere coma andasse a finire.

E vide che don Vincenzo, per accettarsi che si trattasse di vera presenza del demonio e non di una malattia nervosa, nascose in sacrestia un pezzo di carta e comandò all’ossessa di prenderlo e riportarglielo.

La donna fece un gesto di fastidio, ma poi, trascinandosi sulle ginocchia, andò dritto là dov’era il pezzo di carta e glielo consegnò. L’ossessa fu presto liberata e il rilegatore miscredente lasciò il mondo e si ritirò in un convento. Un  altro esorcismo il Santo lo portò a termine il 31 ottobre 1841 insieme al padre Bernardo Maria Clausi e a padre Bernardino da Velletri, in casa della signora Annunziata Bettazzi.

Don Vincenzo ebbe il dono di liberare anime fortemente tentate anche a distanza. Spesso chiedeva ai sacerdoti di misurarsi col demonio. “Facciamo per il bene delle anime –diceva-almeno quanto il demonio fa per farle perdere. Mettiamo nel fare il bene l’impegno che Satana mette nel fare il male. Dobbiamo seminare tanto grano, almeno quanta è la zizzania che semina il demonio”.

Don Marcello Stanzione

 
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