La sacra di San Michele in Val di Susa |
A ponente di Torino, a ridosso della svettante catena delle Alpi occidentali, solcata da profondi e numerosi squarci, giace placida, percorsa dalla Dora Riparia, la Val di Susa. Ti viene incontro Chiusa di S. Michele, piccolo comune più volte presente nei libri di storia. Le Chiuse, infatti, si presentano come un complesso di fortificazioni messe in atto fra i monti Pirchiriano e Caprasio che a guisa di enormi torrioni delimitano la vallata al suo sbocco nella pianura padana. Come passaggio obbligato furono teatro di scontri terrificanti fra stanziali ed invasori d’Italia. Il nome Chiusa trae origine da claustra, chiusura di un luogo stretto, tale da rendere difficilissimo il passaggio. Il Pirchiriano, pinnacolo ardito e capriccioso, sembra essere forma elegante di Porcarianus, monte dei porci, come Caprasio richiama il monte delle capre, analogamente al vicino Musinè, montagna degli asini. Queste denominazioni sembrano avere un forte legame con la religione dei Celti, primi abitatori di ... ... questi luoghi. I Romani ben conoscevano questo valico alpino e ne fanno fede i numerosi frammenti marmorei di divinità alpine. Di qui passarono i Burgundi, gli Eruli di Odoacre, i Goti di Totila, i Bizantini, i Longobardi. Tra il 569 e il 773 questi ultimi continuarono ad innalzare muraglioni e torri attraverso la valle, da un capo all’altro a tenaglia. Ma i lavori si intensificarono soprattutto sotto la guida del re Desiderio e poi di Adelchi nell’intento di opporsi alla migrazione in Italia dei Franchi di Pipino il Breve e di Carlo Magno, chiamati rispettivamente da papa Stefano II e Adriano I. Sul finire del IX secolo la vallata è straziata dalle armate saracene per circa ottant’anni, finché verso il 950 il conte di Torino Arduino Glabrione costituisce la Marca della Valle di Susa. Ma furono papa Silvestro II e l’imperatore Ottone III a volere l’istituzione della grandiosa abbazia intorno all’anno mille. Il Pirchiriano offriva una posizione così strategica come passaggio verso le Gallie che già i Romani vi avevano costruito un castrum. Poi le truppe di fede cristiana, dopo l’impero di Costantino e Teodosio e quindi nel secolo V, ritennero opportuno edificare due piccole cappelle addossate alla roccia, a cui l’eremita S. Giovanni Vincenzo ne aggiunse una terza, più ampia, che la tradizione popolare ritenne consacrata dagli Angeli, donde il nome di Sacra attribuito all’intero complesso tra il 983 e il 987. La chiesetta, che tutt’oggi si venera come il luogo più sacro, è posta sotto il pavimento della basilica ed appare circoscritta assieme ai due primitivi oratori castrensi e quasi schiacciata dai successivi giganteschi ampliamenti monastici. Lassù e per tutta la vallata il culto all’Arcangelo Michele era presente fin dal V-VI secolo, introdotto da monaci persiani, esuli dalla loro terra. Nei primi anni del mille Ugo o Ugone di Montboissier, ricco e altolocato signore dell’Alvernia, detto lo scucito per la sua prodigalità, si era recato a Roma con la moglie Isengarda a chiedere indulgenza per le proprie colpe a papa Silvestro II. Il pontefice lo pone davanti ad una scelta: o sette anni di esilio o il completamento delle opere monastiche sul Pirchiriano. Ugo con tutto il seguito raggiunge Torino, acquista l’intero monte e i dintorni dal marchese del Piemonte, ottiene privilegi spirituali dal vescovo Amizzone e rendite beneficali dall’imperatore Ottone il Giovane. Dà quindi l’avvio all’ampliamento della chiesa e all’edificazione del monastero, seguiti da altri locali come la foresteria e le cosiddet- te rovine con la torre della Bell’Alda. I rimanenti edifici vengono completati nel giro di duecento anni. L’ingresso è oggi a capo di una gradinata, dal portale aperto ai piedi dei poderosi contrafforti sui quali poggia l’abside della chiesa di Ugone, di cui rimangono l’attuale Coro Vecchio e la stupenda porta romanica dello Zodiaco, ricca di pregiati rilievi. Salita un’erta rampa, detta scalone dei Morti, si giunge sul fianco destro della chiesa, ove si apre il portale gotico. La chiesa abbaziale, restaurata, ha un interno luminoso, a forma gotica nelle tre navate su pilastri e romaniche nelle absidi. Sull’altar maggiore un significativo trittico di Defendente Ferrari. Sparsi per le navate risaltano moderni sarcofagi di vari prìncipi di Casa Savoia. Dalla navata mediana si scende nell’antichissima cripta formata dai tre sacelli, fulcro della devozione a S. Michele. Completa la visita uno stupendo belvedere con un incantevole panorama sulla vallata e sui monti circostanti. Non c’è visitatore che non rimanga sedotto dalla forza magica del luogo. Ed il fascino spinge studiosi ed artisti ad interrogare il passato, a leggere nelle pietre vicende secolari, ad indagare sul lato storico-artistico e sull’aspetto culturale-religioso. La Regione Piemonte il 21 dicembre 1994 ha proclamato la Sacra monumento simbolo del Piemonte. “Maestosa posa salda, in alto, a sfidare le ingiurie del tempo e della natura, orgogliosa della sua orrida bellezza, dominatrice fiera della valle, quasi fortezza inespugnabile posta a difesa delle ricche contrade italiane. È una delle più strane costruzioni che si trovino in Italia: piantata sulle diverse punte con cui termina il Pirchiriano, non solo si erge sulla roccia, ma da questa è in parte ricavata e scolpita dentro a colpi di piccone: tanto che, non completamente vinta, gli spuntoni aguzzi riemergono qua e là perfino nei piani più alti dell’edificio a mezzo tra il religioso e il militare. L’insieme seduce il visitatore distratto e il devoto, ridestando una profluvie di ricordi e di leggende” (Antonio Salvatori, Visitando la Sacra di S. Michele, ed. La Tipografica, Stresa 2002). CAPITOLO 6 L’AFFRESCO DELLE GRANDI LEGGENDE Sulla parete nord del Coro Vecchio, all’interno della basilica, campeggia l’affresco delle due leggende: è dipinto a linee rosse e bianche, su uno sfondo giallastro, e riassume in otto scene la storia, mista a leggenda, della fondazione del santuario. Eccone la descrizione dedotta dal libro di Antonio Prearo, La Sacra di S. Michele, storia, arte, leggende, ed. Formagrafica, Torino 2002, pp. 162-165. “Nella parte destra dell’affresco si vede un ecclesiastico lavorare d’ascia per squadrare tronchi: è Giovanni eremita a Celle sul Caprasio che prepara i materiali per erigere una chiesa in onore di S. Michele, seguendo gli ordini ricevuti dall’Arcangelo stesso apparsogli in sogno. Più sotto un Angelo sottrae al santo dormiente il frutto del suo lavoro. Nella parte superiore si ammira un volo di Angeli e di candide colombe attraverso la valle di Susa: chi regge fra le mani o sulle spalle e chi nel becco travi ed assi. Una didascalia precisa: “Angeli e colombe portanti travi ed assi da Celle al monte Piscariano”. Raggiunto il monte, i portatori si affannano attorno ad una costruzione già avviata per mettere in opera il materiale, frutto dell’ultimo colpo ai danni del laborioso eremita. Vicino sono liberamente dipinti l’Abbazia ed il Sepolcro dei monaci (l’una e l’altro graficamente precisati). Bisogna tornare a destra dell’affresco per il secondo episodio della leggenda. Una didascalia informa: “Poscia S. Michele mostra a Giovanni il monte Piscariano su cui è disposto ad arte il legname trasportato dagli Angeli e dalle colombe”. Il santo era grandemente stupito per i furti di cui era vittima da varie notti, e non poteva darsene pace. Ma S. Michele lo tranquillizzava e lo invitava a seguirlo: “Johannes, sequere me”. Così gli fece vedere, dopo un rapido volo attraverso la valle, che tutto era stato fatto nel migliore dei modi, appagando anche l’altro suo desiderio e cioè che la chiesa venisse costruita sul Pirchiriano e non sul Caprasio. A Giovanni non resterà che completare l’opera così ben avviata dalle angeliche schiere. La seconda leggenda è richiamata da alcuni prelati riuniti attorno ad un vescovo vicino ad un centro fortificato, e da tre gruppi di fiamme che guizzano nei pressi dell’Abbazia. A consacrare la chiesa fu invitato il vescovo Amizone. Mentre stava trascorrendo la notte nel castello di Avigliana, in viaggio da Torino per recarsi a compiere la cerimonia, il presule fu svegliato dal clamore popolare provocato dalla vista di alte fiamme che avvolgevano la cima del Pirchiriano. Il vescovo subito si incamminò. Ammirò, pervaso di santo stupore, lo straordinario spettacolo, compì il più rapidamente possibile l’erta salita ed entrò nella chiesa. Non poté che aspirare il profumo dei preziosi oli usati dai celesti consacratori, gli Angeli, che l’avevano preceduto rivestendo aurei paramenti pontificali. Avevano anche preparato un altare, su cui Amizone celebrò una messa solenne. La leggenda della consacrazione celeste delle chiese dei monasteri era allora diffusissima; era un modo per rivendicare l’indipendenza delle istituzioni monastiche dal Vescovo nella cui diocesi sorgevano. Nella parte inferiore sinistra dell’affresco si ammirano cavalieri e dame mentre escono da Secusia (Susa), per avviarsi sulla strada che porta al Pirchiriano. Una linea bianca parte da un cavaliere e conduce a leggere una chiarificatrice didascalia: “Ugo, signore di Montboissier, primo fondatore del monastero di S. Michele, e sua moglie”. Nella parte inferiore destra vi è la firma dell’autore: S.R Gio. Angelo SA. Altra leggenda, meno divulgata, pretende che tutti i fabbricati del Pirchiriano siano stati costruiti sul Caprasio e poi per insigne miracolo trasferiti in altra parte della montagna, là ove era sorta la città Pirghiriana, sul monte Picheriano, altrimenti chiamato Porcariano. Fallito tentativo di trasportare sul Pirchiriano i resti di S. Giovanni Vincenzo. Una quarta leggenda si riferisce ai resti di Giovanni l’eremita o S. Giovanni Vincenzo. Il pio anacoreta, per ragioni che nessuno potrà mai conoscere, dal Pirchiriano, sede della miracolosa opera in cui aveva avuto tanta parte, era tornato a Celle sul Caprasio, ove morì, nel 1000, e ove fu sepolto. La salma vi rimase alquanto negletta per un secolo e mezzo; il luogo era stato abbandonato anche dai suoi compagni di romitaggio raccoltisi, nel 1003, nel monastero di S. Martiniano di Brione. Nel 1150 i santi resti furono posti in un’urna e trasportati a Sant’Ambrogio perché avessero più degna sede, come vuole qualcuno, o perché non diventassero oggetto di furto da parte di qualche male intenzionato, come scrivono altri. Dopo quattro anni si pensò di portarli sul Pirchiriano, nella nuova chiesa da poco ultimata. A tal fine l’urna fu assicurata sul basto di un mulo. Il paziente animale si incamminò, ma giunto appena fuori del borgo, ai piedi della mulattiera che sale al monte, s’impuntò e non volle più saperne di proseguire. Incitamenti e sferzate furono inutili; il mulo non fece più un passo. La cocciuta disubbidienza dell’animale fu interpretata come avvertimento soprannaturale. L’urna fu scaricata e riportata nella chiesa ove ancora oggi si trova. Nessuno seppe (né mai saprà) se la resistenza del mulo dovesse essere interpretata come espressione della volontà del santo che i suoi resti fossero lasciati a Sant’Ambrogio oppure a non essere portati sul Pirchiriano. Ad ogni modo il borgo, che aveva il suo naturale patrono nel grande Arcivescovo ambrosiano da cui si denomina, fu costretto, per l’evento prodigioso inteso a proprio favore, a preferirgli S. Giovanni Vincenzo, per la tradizione un grande Arcivescovo ravennate. Né reliquie, né santi alla Sacra. Chi ci rimise fu la Sacra cui fu tolta la migliore occasione di avere un corpo santo nella sua chiesa. Sorta nel periodo in cui particolarmente affannosa era la richiesta e la ricerca di corpi santi e più vivace ne era il commercio, mai si curò di averne uno. I suoi monaci erano tali che ben avrebbero saputo, se l’avessero voluto, come e dove venirne in possesso. Erano soddisfatti del loro gran patrono, l’Arcangelo Michele. Il primo e più prestigioso dei monasteri dedicati a S. Michele, quello sul monte Gargano, cui la Chiusa si sentiva legata da spirituale fraternità, possedeva addirittura reliquie dell’Arcangelo: il purpureo manto dallo stesso abbandonato sulla terra, in occasione di una sua discesa, ed il marmo su cui aveva appoggiato gli aerei piedi. Invece quelli di Mont Saint-Michel avevano mandato due messaggeri a ritirare un pezzo di manto ed un frammento di marmo, miracolosissimi, per conservarli come le cose più preziose. Su un altro santo monte, il Michelsberg in Baviera, si custodiva una penna dell’Arcangelo, una delle remiganti, dallo stesso lasciataci in una furiosa zuffa sostenuta contro il Maligno che ad ogni costo voleva impedire a S. Bonifacio di distruggere il tempio di Diana, sorgente sulla vetta, per elevare al suo posto una chiesa dedicata al Principe degli Angeli. La Chiusa non si curò neanche delle reliquie celesti; forse era arrivata troppo tardi, i tempi erano mutati. S’accontentò, a dimostrazione della sua fraternità e solidarietà con S. Michele sul Gargano, di avere un possedimento nella stessa penisola, quello di S. Leonardo. Da Mont Saint-Michel ricavò molte ispirazioni per le costruzioni sul Pirchiriano. Alla Chiusa, come non vi furono reliquie arcangelesche, né reliquie e corpi di santi, così non vissero santi, anche se l’interessata agiografia benedettina vuole fare passare per santi Benedetto I e Benedetto II, i quali furono sì dei grandi abati, ma che siano stati santi è partigiano affermare, tant’è che la Chiesa non si è pronunciata sulle loro eroiche virtù. La bell’Alda. In tempi non molto lontani si volle riferire anche alla Sacra un’altra leggenda: quella della bell’Alda. Così la narra Massimo d’Azeglio nella sua Sacra di S. Michele. “Solevano i monaci, quando le soggette regioni erano da gente d’arme, saccomanni e simili pesti inondate, dar ricovero nel loro forte e sicuro sito a quei tranquilli abitanti che difesa non avevano all’aperto contro il nemico. S’ignora in qual parte e da chi nascesse una donzella di mirabili forme detta Alda la bella: essa pure col padre riparava nelle sacre mura a sfuggir dal pericolo che le sovrastava per sua meravigliosa bellezza. Lasciata sola in un angolo del monastero durante l’assalto, fu dal torrente dei soldati ben presto scoperta. Già la mano di uno di loro lambiva la veste della vergine: col pensiero più che col labbro chiedendo l’aiuto dell’Immacolata Madre di Dio e di S. Michele si lancia fuori del balcone altissimo e, leggera come la penna che si stacca dal petto della colomba, trovasi illesa in fondo al precipizio. Tanto favore del cielo insuperbì la vergine. Tornato in calma il paese e dileguato il pericolo, volle ritentar la prova. Cadde dall’alto e, percossa cento volte alle acute punte dei massi, venne rotando sino al fondo, miserando esempio di punita superbia. Una croce di pietra è innalzata sul luogo ove l’infelice restò senza vita, ed al dirupo rimase il nome di Salto della bella Alda”. È da notare che non vi è concordanza sul luogo, teatro della leggenda: secondo alcuni, fra cui il d’Azeglio, la bella si sarebbe buttata dal ballatoio dopo la cripta, vicino al campanile, secondo altri dal torrione delle rovine che porta il suo nome. Nell’un caso o nell’altro l’effetto non sarebbe mutato; della bella dopo il volo el toc pi gross a l’è stata l’ouria (il pezzo più grosso fu l’orecchio), come nota lo stesso scrittore ne I miei ricordi. “Le leggende, afferma ancora il d’Azeglio, sono da alcuni pochi credute e dai più udite non senza piacere, perché servono a saziare la sete che ha sempre l’animo umano di meraviglie. E stupefacente meraviglia continuano a suscitare le costruzioni sul Pirchiriano. Ad ammirarle salgono ogni anno a decine e decine di migliaia i visitatori. Ma quanti affascinati, turbati, sgomenti anche di fronte al superbo spettacolo architettonico e scultoreo, che nessuno lascia indifferente, si chiedono il perché di tanta meraviglia che non è leggenda, ma realtà? Possono saziare la sete dell’animo limitandosi a contemplare l’incerto punto da cui avrebbe spiccato i suoi voli la bell’Alda, come troppo spesso avviene?”. CAPITOLO 7 MONDANITÀ E DECADENZA Un frammento della Cronaca del monastero della Chiusa così descrive il complesso abbaziale: “Ai confini d’Italia s’innalza un monte insigne chiamato con nome volgare, ma non per volgare errore o caso, Pirchiriano, cioè fuoco del Signore, per la futura presenza, credo, lassù degli Angeli: sul suo supremo cocuzzolo s’eleva la chiesa di S. Michele Arcangelo. Qui, l’anima, sublimata alle sfere celesti, gode di nettarea soavità e, per i meriti acquistati, vola diritta al Sommo Creatore di ogni bellezza”. Per la sua eccezionale posizione strategica, la Sacra fu concepita, fin dagli inizi, non solo come centro di preghiera monacale, ma anche come baluardo difensivo per le popolazioni dei dintorni. Prioritarie rimasero però sempre le esigenze religiose e le funzioni di ostello per i pellegrini di alto livello sociale e di conseguenza divenne anche centro culturale di prim’ordine. Attraverso il Moncenisio la vallata si trasformò in grande via di comunicazione europea per viandanti e dignitari diretti verso la città di Roma e per quanti, partendo dai porti dell’Italia, si recavano in Palestina, oppure si dirigevano verso il cammino di Santiago di Compostella o verso Mont Saint-Michel. Con l’andar del tempo il centro monastico divenne uno dei più celebri monasteri benedettini con vastissimi possedimenti in Italia, Svizzera e Francia. Fin verso il 1300 l’abbazia visse un periodo di grande splendore, gloria e potenza sotto la guida di abati creativi e di grande talento, capaci di azioni diplomatiche e militari per salvaguardarne l’autono- mia e l’indipendenza dal potere vescovile torinese e dalle brame di marchesi e conti. Celeberrima fu l’aspra contesa tra Bonifacio VIII e Filippo IV il Bello, re di Francia, che protendeva le unghie avide di denaro verso i beni abbaziali. Poi dal 1325 intervennero i Savoia bramosi d’impossessarsi dei pedaggi della vallata e tanto brigarono che nel 1381 il complesso monastico venne concesso in commenda ad Amedeo VI e ai suoi successori. Fu l’inizio di una decadenza inarrestabile, essendosi perduti l’ideale e l’ardore religioso. Nel 1523 la Sacra venne trasformata in fortezza e da allora dovette patire per secoli le tristi conseguenze delle vicende belliche, quasi sempre negative, cui andò soggetto il regno di Savoia, subendo invasioni e devastazioni. Sovente fu occupata e saccheggiata da milizie di passaggio. I cannoni francesi la devastarono nel 1693 e nel 1706, mentre le armate napoleoniche la occuparono nel 1796. Nel 1835 il re del Piemonte Carlo Alberto prese contatti con il filosofo don Antonio Rosmini con l’intento di affidare il complesso ai religiosi rosminiani, chiedendo in compenso di poter utilizzare la chiesa come luogo di sepoltura dei prìncipi di Casa Savoia. Il visitatore infatti oggi può ammirare, sparsi per le navate, numerosi sarcofagi di duchesse e duchi sabaudi, alcuni lavorati, altri semplici e modesti. La presenza delle salme sabaude servì a trasformare la Sacra in luogo di sepoltura gentilizio, ma anche contribuirà a richiamare visitatori italiani e stranieri, tanto che già nel 1869 il complesso dei fabbricati sul Pirchiriano fu dichiarato monumento nazionale. E da allora inarrestabile è il flusso turistico. Don Vincenzo Mercante |
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