Sant'Antonino patrono di Campagna (SA) e di Sorrento (NA) |
Il 14 settembre si festeggia sant’Antonino Abate che è patrono sia di Sorrento in provincia di Napoli sia di Campagna in provincia di Salerno. Partiamo da questo dato sicuro: Antonino Cacciottolo non era sorrentino, ma era nato verso la metà del VI secolo, se non qualche anno prima, a Campagna d’Evoli, presso il fiume Sele. Presumibilmente fra il 555 ed il 556, nel Casale San Silvestro. Nulla si sa di certo sui suoi genitori e sulla sua fanciullezza, né sull’epoca in cui visse. Probabilmente si chiamavano Vitale Alessandro Catello il padre e Adelicia Maddalena De Berea la madre. Divenne, comunque, ben presto orfano di entrambi i genitori, per cui fu accolto dai benedettini dell’Abbazia di Santa Maria Nova, ove rimase per il suo noviziato, fino alla fine del 500. Tra gli agiografi si discute se il cognome paterno fosse quello di Catello, Caciottolo o di Cacciottolo; noi accettiamo di seguire l’opinione dominante tra gli studiosi che indica il cognome di Cacciottolo. Molto probabilmente ... ... è un patronimo usato per descrivere anche la sua conformazione fisica. Si sa che nelle nostre contrade, molti cognomi sono nati da un mestiere o da conformazioni fisiche o da discendenze inerenti attività in determinati luoghi. Cito ad esempio di ciò il caso dei Scannapieco dell’entroterra della Costiera amalfitana, la cui attività prevalente era correlata alla beccheria. Catello e Caciottolo o Cacciottolo traggono, invece, origine entrambi dal latino Catus, che sta per tracagnotto, bassino, cacciuttiello come si dice ancora oggi nel detto popolare. Per quanto riguarda la madre, il cui cognome risulta ancora più difficile da stabilire, accettiamo quello di Apreda, opinione comunemente diffusa (Carmelo Randello, San Antonino di Sorrento Abate, Fabbri Editore, Milano 1987). Sembra che la mamma fosse una gentildonna dotata di una singolare religiosità; il padre, anch’egli nobile, era un artigiano che si dedicava ad opere di intarsio e di incisione sopra legnami e pietre (Filippo Gibbone, Vita del santo abate Antonino, Edizione Arnaldo Forni, Campagna 1885). I vari biografi del santo non sono riusciti a trovare nessun accordo per stabilire con certezza la sua data di nascita . Le discussioni, che si sono protratte negli anni, ed ancora proseguono, accettano un arco di tempo che va dalla metà del VI sec. fino all’ VIII sec., mentre è ormai del tutto negata la tesi che la pone addirittura al IX sec.. Tale tesi viene confortata dallo storico campagnese Filippo Gibbone, vissuto nel 1800, che afferma ch’egli nacque nel casale di San Silvestro o San Vitale, nel territorio di Campagna, in quegli anni, con il nome di battesimo di Domenico Lorenzo, nella chiesa di san Lorenzo nel suddetto casale. Sicuramente, secondo questo storico, egli seguì il padre nell’apprendere l’arte della scultura e dell’intarsio non trascurando lo studio del saper leggere e scrivere, secondo i costumi del tempo (Op. cit. Filippo Gibbone, pagg. 92-95). La sua giovinezza fu, tuttavia, segnata dalla perdita del padre prima e della madre subito dopo. Tale situazione di solitudine affettiva favorì, nel giovane Domenico Lorenzo la decisione di ritirarsi nel Cenobio benedettino di Santa Maria Nova in Campagna, vivendo in una celletta. che è tuttora custodita nell’Antica Abbazia benedettina, dal solerte parroco Don Marcello, che l’ha fatta anche restaurare. Vendette tutti i suoi beni devolvendoli ai poveri e ai parenti bisognosi. Diventò frate con il nome di Antonino, studiò con avidità le scritture e con zelo praticò atti di carità; divenne sacerdote e, in queste veste, andava predicando nelle nostre contrade. Fu inviato in vari cenobi e abbazie, tra le quali quella di Montecassino, dalla quale dipendeva quella di Santa Maria Nova (Op. cit Filippo Gibbone, pagg. 128). Alcuni sostengono che proprio da Montecassino, mentre era papa Pelagio II (579-590), sia sfuggito alla distruzione dell’abbazia – nel 589 -, ad opera del primo duca longobardo di Benevento, Zotone, dirigendosi precipitosamente verso la pianura e giungendo a Stabia (P. Antonio Caracciolo Teatino, Vita del santo Abate Antonino, Tip. Frat.lli Margherita, Campagna 1885). Qui era vescovo San Catello, divenuto poi patrono di Castellammare di Stabia, la cui festività ricorre il 19 gennaio. Quando Antonino gli si presentò chiedendogli aiuto, egli non esitò a ospitarlo nella diocesi, essendo alla ricerca di un collaboratore fidato e quel monaco, che aveva ricevuto anche gli ordini sacri, gli ispirava molta fiducia. Ad un certo punto, anche Antonino avvertì l’esigenza della solitudine e, dopo averlo tanto pregato, ottenne dal vescovo Catello, tornato nel frattempo a Stabia, di isolarsi sul vicino monte Aureo (Faito), dove trovò una grotta che rispondeva alle proprie esigenze. Ma non vi restò a lungo solo. Un bel giorno, San Catello, nominato un nuovo vicario, lo raggiunse sulla montagna. Una notte, mentre i due eremiti separatamente stavano pregando ebbero, entrambi, una visione: un torchio ardente, simile a una colonna di fuoco, che illuminava la cima del monte. Stupiti dal prodigio chiesero al Signore di spiegarne il significato e a ciascuno di loro apparve l’arcangelo Michele che diceva: “Il Signore vuole che in quel luogo, ove siete soliti pregare e dove vi è stato mostrato il torchio ardente, gli costruiate un oratorio che porti il mio nome” (Raffaele e Alfonso D’Ambrosio, San Antonino Cacciottolo ed i villaggi di Furano, Edizione Grafica Ebolitana, Eboli, Febbraio 2006). Quando i due eremiti si riunirono scoprirono di aver avuto la stessa visione. Fu Antonino allora a progettare l’oratorio ed a seguirne i lavori perché, secondo i biografi, conosceva l’arte della costruzione. Pare sia innata anche nella comunità di Santa Maria Nova, questa specializzazione nella costruzione, poiché la maggior parte dei suoi abitanti è dedita alla carpenteria ed alla muratoria. La loro pace però non durò molto: un chierico, che aveva il compito di portare sul monte l’occorrente per il culto divino, cominciò a lamentarsi per la fatica giungendo fino a rifiutarsi di salire all’eremo sostenendo che, non soltanto il vescovo si comportava male, perché aveva trascurato la cura della sua Chiesa, ma si abbandonava ad un culto idolatrico nell’oscurità delle caverne e delle foreste insieme con un monaco apostata. Come succede molto spesso, quelle vaghe accuse suscitarono preoccupazione nel clero e nel popolo, tanto da spingere alla decisione di avvisare papa Sabiniano (604-606). Antonino, che pure era stato accusato di apostasia, non venne stranamente arrestato, ma, per quale motivo, non lo sappiamo; la tarda “Passio”, che risale al IX secolo e le cui contraddizioni sconfinano nella leggenda, non ci aiuta a tal riguardo (Ignazio Della Calce, Vita del santo Abate Antonino, Napoli 1760). Fatto sta, comunque che, dopo un breve tempo, i due furono prosciolti dalle accusa – grazie anche all’intervento diretto di papa Bonifacio III – e poterono, quindi, riprendere le loro attività di ampliamento della chiesa sul monte che, ben presto, divenne meta di intensi pellegrinaggi dalla vicina città di Sorrento. Certo è che la sua fama di santità, non solo lo salvò da tale accusa, ma spinse anche il popolo di Sorrento ad acclamarlo, quale abate del cenobio di Sant’Agrippino, dopo la morte del suo predecessore, espandendo oltremodo la sua fama di santità anche per i numerosi miracoli di cui sarebbe stato protagonista. Nei pochi anni trascorsi a Sorrento si distinse per la fedeltà alla regola benedettina, per la cura dei poveri, per lo zelo apostolico e per il rigido atteggiamento penitenziale (Antonino Cuomo, Sant’Antonino e i quattro Vescovi Santi protettori di Sorrento, Tip. D’Onofrio Stampatore, Sorrento 1991). Erano appena trascorsi tre anni dalla sua elezione, quando una malattia lo ridusse in fin di vita. In punto di morte, chiamati a sé i monaci, espresse lo strano desiderio di essere seppellito “né dentro né fuori” la città (Op. cit Raffaele e Alfonso D’Ambrosio, pag.187). L’abate Antonino morì il 14 Febbraio del 625, mentre era console di Sorrento Probiano e reggeva l’Impero Eraclio (610-641). Il suo corpo fu messo in una cassa deposta nella muraglia del convento, come aveva detto ai suoi monaci, che non voleva essere seppellito “né dentro, né fuori la città”. don Marcello Stanzione |
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