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Il linguaggio degli Angeli nella teologia medioevale PDF Stampa E-mail

Il linguaggio degli Angeli nella teologia medioevaleCertamente gli angeli parlano tra di loro, e con gli esseri umani quando sono inviati da Dio a recare i suoi messaggi. Ce lo testimonia la Sacra Scrittura, offrendoci vari esempi sia di parole ed espressioni rivolte dagli spiriti angelici ai propri simili, sia a noi. In questi ultimi casi essi usano la lingua propria delle persone con cui si intrattengono. Così il famoso saluto dell’arcangelo Gabriele a Maria tramandatoci dal Vangelo secondo Luca fu sicuramente pronunciato in aramaico, il linguaggio di Nazareth. Nelle apparizioni di Fatima, l’angelo del Portogallo insegnò ai tre pastorelli speciali preghiere in lingua portoghese ed in questa stessa lingua l’Angelo dalla spada di fuoco pronunciò il triplice invito alla penitenza contenuto nella terza parte del segreto.Nella Bibbia si riscontrano anche dialoghi tra angeli. Il profeta Isaia nella descrizione della teofania nel Tempio di Gerusalemme, ricorda: “ Intorno a Lui (Dio) stavano dei serafini che proclamavano l’un l’altro: Santo, ...

...  Santo, Santo” (Is 6.2-3). Nell’Apocalisse, L’angelo che recava “il sigillo del Dio vivente…gridò a gran voce ai quattro angeli…”Non devastate la terra né il mare…finchè non abbiamo impresso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi eletti” (Ap 7, 2-3). La questione del linguaggio degli angeli mostra bene l’importanza dell’angelologia nei problemi teologici ed antropologici specialmente del pensiero teologico medievale. Si ha difficoltà nell’immaginare le passioni che hanno scosso gli uomini del Medio Evo a proposito di queste questioni che ci sembrano oggidì senza oggetto e senza luogo.

Evocando queste costruzioni speculative che rivelano per noi un immaginario arcaico, vorrei qui dimostrare che attraverso di esse si manifesta una comprensione di Dio, e soprattutto dell’uomo che è ben ancora la nostra di oggigiorno. Come parlare, in effetti, della comunicazione angelica, senza far riferimento, criticandola, a quella comunicazione che è la nostra, il linguaggio umano? Ed è ben il linguaggio umano che sta per servire da modello ai pensatori medievali per parlare della comunicazione degli angeli tra di loro. Il modello è ben certo troppo imperfetto, ed i medievali ne vanno a sottolineare i difetti. Ma allo stesso tempo, essi sono obbligati ad analizzarlo, a descriverlo, e quelle analisi sembreranno presto come un’autentica teoria del linguaggio.

Quando ci si chiede se gli angeli, che sono dei puri spiriti, comunicano tra di loro, e come essi comunichino, la risposta appare chiara ed evidente: il mondo degli angeli è un mondo totalmente spirituale e trasparente, e la questione della comunicazione tra gli angeli non si pone, tanto quella comunicazione è immediata ed automatica, nessun ostacolo può impedirla o renderla difficile. Non hanno neanche bisogno di parlare di comunicazione: gli angeli sono totalmente trasparenti a se stessi e tra di loro, sono di colpo comunicanti. Questa risposta è comunque molto semplice ed i medievali non la riterranno. Poiché gli angeli non sono dello spirito, ma degli spiriti, personali ed individuali, e se sono di colpo trasparenti vicendevolmente, allora nulla può più differenziarli, essi non hanno più silenzio o segreto nel quale il loro “io” personale può ritirarsi. Tutto il problema che avranno da risolvere i pensatori medievali sarà dunque di spiegare non come quei puri spiriti che sono gli angeli possano parlare, ma come essi possono tacere, ossia non comunicare più, entrare nel segreto del silenzio. A dire il vero, alcuni scrittori medievali, come Dante nel suo trattato De vulgari eloquentia, eviteranno la questione del linguaggio angelico affermando che gli angeli non comunicano tra di loro, ma che essi si conoscono e si riconoscono in Dio, “tramite quello specchio splendidissimo nel quale essi si riflettono tutti in tutta la loro bellezza”. Così, dirà Dante, gli angeli “sembreranno ben non aver nessun bisogno di alcun segno di linguaggio”.

Non si tratta qui neanche più di comunicazione angelica, ma di conoscenza personale e reciproca, in quello specchio splendidissimo che è Dio. A quel mondo di trasparenza e di riflesso luminoso, Dante oppone l’opacità del mondo degli uomini che hanno bisogno del linguaggio a causa dello “spessore e l’opacità del corpo mortale”. L’angelo pensa, ed il suo pensiero è immediatamente evidente a tutti gli altri angeli, senza fare ricorso a nessun segno né linguaggio. Così l’angelo non parla né tace, ed egli ignora sia il silenzio che la parola. Dante rifiuta il linguaggio agli angeli in nome della loro trasparenza vicendevole. Ma si può anche rifiutare quel linguaggio in nome della loro reciproca opacità. Poiché ogni angelo è fine a se stesso, vi è tra di loro una barriera inattraversabile che nessun linguaggio potrebbe attraversare. Anche Malebranche dirà come Dante, ma per la ragione esattamente inversa, che gli angeli non possono conoscersi e riconoscersi che nella luce di Dio. Questa risposta non aveva soddisfatto i grandi pensatori medievali come Bonaventura o Tommaso d’Aquino. Bonaventura nel suo Commento delle sentenze (II, dist. 10, a. 3, q. 1 e 2), ammette bene che pensare è formare in sé un verbo interiore.

E dunque il pensiero dell’angelo è ben una parola interiore. Ma parlare è anche comunicare con un altro, esprimere quella parola interiore. Se l’angelo parla, egli non deve dunque solamente produrre del senso per lui, ma comunicarlo ad un altro. Per far questo, l’uomo utilizza i segni sensibili del linguaggio, cosa che non sarebbe il caso per l’angelo. Ma Bonaventura nota che la parola esige che si voglia parlare. Il pensiero non si comunica da solo, automaticamente, senza l’intervento volontario del soggetto che pensa e che vuole parlare. Questa distinzione nell’atto di parola di quello che è comunicato e della volontà di comunicare, permette a Bonaventura di affermare che l’angelo, se comunica quello che pensa direttamente all’altro angelo, da pensiero a pensiero, senza la mediazione di nessun segno, non lo fa che se vuole comunicare. La parola esteriore dell’angelo è ben dunque la stessa della sua parola interiore, il suo pensiero (allorché presso gli uomini è sempre una parola significata, messa in segni), a quel quasi che si aggiunge l’atto di volontà che produce quella parola esteriore. Tramite quella volontà, l’angelo esce dal suo silenzio interiore, dal segreto di quel silenzio, e si rileva liberamente all’altro angelo.

L’angelo non potrebbe dunque essere paragonato ad uno specchio nel quale si leggerebbe tutto quello che vi si riflette, e Bonaventura ricusa fin dall’inizio la teoria di Dante. Vi è comunque, nella teoria di Bonaventura, una certa inconseguenza. Presupponendo la trasparenza totale dell’angelo in se stesso ed all’altro angelo, senza l’intermediazione di nessun segno, essa sottolinea nondimeno che la comunicazione non è automatica, che è rottura volontaria d’un silenzio interiore ed atto libero di rivelazione di sé all’altro. Ma affermando ciò, Bonaventura confessa senza dirlo che occorre ammettere una certa opacità di un angelo all’altro, poiché è capace di restare in silenzio e di non comunicare. Così ciò che pare magnificare la comunicazione sottolineando che è sempre un atto libero, implica allo stesso tempo che il silenzio e la non-comunicazione è una volontà di occultazione, un “voler tacere”. Così, in definitiva, quello che è manifestato è che, per l’angelo come per l’uomo, non vi è parola che non venga da un segreto precedente e che non ritorni ad un segreto posteriore. Ogni parola, quella dell’angelo come quella dell’uomo, nasce dal silenzio e ritorna nel silenzio, e mai essa esaurisce la totalità dell’essere che parla e la totalità della parola. Contrariamente a Dio che, quando parla, se parla e genera il suo Verbo, che è Dio stesso e che esaurisce la totalità della parola. Al contrario di Bonaventura che suppone la questione risolta, Tommaso d’Aquino comincia col domandarsi se si può affermare che vi sia un linguaggio degli angeli.

Tommaso, nelle sue Quaestiones disputatae de veritate (q. 9, a. 4-7) analizza il linguaggio umano come il potere di “rivelare il suo pensiero ad un altro uomo”, ed egli lo interpreta come una perfezione che si deve attribuire all’angelo. Nella Summa Theologiae (1a. q. 107), Tommaso è più preciso e prende in considerazioni e le obiezioni della tradizione contro il linguaggio degli angeli. Alcuni affermano che quel linguaggio è superfluo poiché gli angeli si conoscono gli uni gli altri ed il linguaggio ha per scopo di “manifestare ad altri quello che è nascosto nello spirito”. Altri pensano che gli angeli, essendo immateriali, non possono usare i segni del linguaggio. Le risposte di Tommaso sono interessanti, poiché rivelano tutta una filosofia del linguaggio. Il pensiero interiore è racchiuso in noi, e nessuno, se non Dio, può conoscerlo, dice Tommaso.

E nel caso dell’uomo, questa chiusura è come raddoppiata “dallo spessore del corpo, ed occorre impiegare qualche segno sensibile per farlo conoscere”. Citando un bellissimo testo di Gregorio Magno, Tommaso scrive: “Agli occhi degli altri, nel segreto della nostra anima, noi stiamo come dietro la muraglia del nostro corpo; quando vogliamo mostrarci, noi usciamo come per la porta del linguaggio, per scoprire quello che siamo interiormente”. Vi sono dunque due ostacoli sulla soglia del linguaggio, una doppia barriera, dice Tommaso: dapprima uno stato naturale di opacità che viene dal fatto che il pensiero è racchiuso in un corpo. La mia volontà non può farci niente, ed essa ha a che fare con quella opacità. Ed in quello stato di opacità, vi è una volontà che deve decidere, o meno, di uscire da quella opacità per comunicare con altri. L’angelo non conosce evidentemente il primo ostacolo, poiché non ha corpo, ma vive la seconda situazione, poiché decide liberamente di comunicare o meno il suo verbo interiore. Può rifiutarsi di lasciarlo conoscere, allorché anche quando è nella possibilità di essere noto. Il linguaggio angelico dipende dunque interamente da una volontà di comunicazione.

Se questa volontà esiste, la comunicazione è totale e perfetta, non giungendo il corpo ad oscurarlo. Se questa volontà non esiste, allora il segreto è anch’esso totale ed impenetrabile. La comunicazione angelica appare dunque qui come il sogno della comunicazione umana perfetta. Poiché l’uomo, quando vuole comunicare, non perviene mai a dire perfettamente quello che vuole dire, ed egli deve parlare all’infinito senza mai giungervi. Per l’uomo, il linguaggio è sempre un lavoro di espressione, allorché per l’angelo, è la visione offerta del suo essere. Allorché lo smacco è inerente al linguaggio umano, sempre relativamente impotente nel dire quello che vuole dire, nel linguaggio angelico, il dire coincide immediatamente e sempre col voler dire. La volontà di parlare dell’angelo è la sua stessa parola. Così Tommaso concluderà naturalmente che l’espressione di “lingua degli angeli” è metaforica, è la potenza stessa che essi hanno di manifestare la loro volontà. Presso l’angelo, la comunicazione stessa di comunicare.

Che colui che parla voglia comunicare, il fatto che egli comunichi e quello che comunica, questi tre momenti di ogni linguaggio umano formano un solo e stesso atto nel caso della parola dell’angelo. Così la comunicazione angelica, quando è voluta, è comunicazione perfetta. Ed il solo ostacolo a questa comunicazione perfetta consiste nella sola volontà di non comunicare. Così il linguaggio degli angeli appare come la perfezione realizzata del linguaggio umano, il sogno che abita in permanenza questo linguaggio. A differenza di quelli che accade nel linguaggio umano, presso l’angelo la parola esteriore s’identifica pienamente e perfettamente alla parola interiore, a quelli che pensa e “dice” a lui stesso. Il linguaggio angelico realizza così il sogno impossibile del linguaggio umano, che è quello di realizzare così la pienezza della comunicazione e della comunione con l’altro. Ma allo stesso tempo, questa parola angelica assume e sorpassa la paura o l’angoscia che abita ogni linguaggio umano. Quando noi parliamo, prendiamo il rischio di “scoprirci” di fronte all’altro, e manifestandoci, noi ci consegniamo a lui e siamo alla sua mercé. Come dice Tommaso d’Aquino, “l’angelo non conosce che il linguaggio interiore. Questo non consiste solamente nel parlare a se stesso formando un concetto, ma anche ad ordinare, col mezzo della volontà, questo concetto in vista di manifestarlo ad un altro” (S. T. 1°. Q. 107, a. 1, ad 2). Allorché l’uomo che parla è, come suo malgrado svelato e consegnato ad una trasparenza che desidera nel mentre che la teme, l’angelo inventa la più alta trasparenza, quella di una libertà che si dona senza ombra né riserva. E’ senza dubbio per questa ragione che, nei testi che parlano del linguaggio degli angeli, il termine di audizione è molto spesso rimpiazzato dal termine di visione. Tommaso, nella Summa (q. 107, a. 3) si pone la domanda di sapere se l’angelo parla a Dio. Ed egli risponde che di fronte a Dio, l’angelo si pone come il discepolo in rapporto al maestro nel linguaggio umano.

Egli aggiunge che “il linguaggio non è sempre ordinato nel manifestare qualcosa ad altri; esso giunge al contrario talvolta che è colui che parla che qualcosa sia manifestato: così come quando il discepolo chiede una spiegazione al maestro”. Così qui il linguaggio è rivelazione e contemplazione. E secondo sant’Agostino (De Trinitate, XV, 10), i pensatori medievali pensano che “vedere e sentire sono cose identiche” quando si tratta della parola interiore dell’anima. Questa identità posta tra audizione e visione è importante qui, poiché se il linguaggio dona da vedere quello che dice facendolo sentire, allora l’interlocutore non ha più bisogno di credere a quello che sente, poiché lo vede. L’angelo conosce, ma non crede. Questa identità tra la cosa detta ed ascoltata e la cosa vista discende dall’affermazione della totale trasparenza realizzata dal linguaggio angelico. Anche qui, questo linguaggio si dona come la perfezione del linguaggio umano che sempre chiama alla fede ed alla fiducia di colui che ascolta e crede alla parola che sente.

L’angelo dona da vedere quello che noi, significando come essere sempre fuori di veduta, ma a portata d’orecchio. La parte della Somma Teologica che tratta del linguaggio degli angeli finisce con una curiosa questione. Tommaso si chiede (q. 107, a. 5) se la parola di un angelo ad un altro è conosciuta da tutti gli altri. Diversamente detto, se un angelo può avere una conversazione privata con un altro angelo, se dunque egli può avere un segreto condiviso o rifiutato secondo l’interlocutore che si sceglie. In effetti, se si immagina questo mondo degli angeli, non si vede quello che esigerebbe od autorizzerebbe un tale segreto. Se un uomo può non parlare che ad un altro uomo, per delle ragioni di distanza spaziale, o per scelta affettiva od intellettuale, non è lo stesso per gli angeli, che nessuna distanza di alcun tipo saprebbe separare e differenziare. Così il linguaggio dell’angelo è naturalmente pubblico e non potrebbe essere confidenziale. La risposta di Tommaso è altrettanto curiosa come la domanda posta: “Un uomo, egli dice, può parlare ad un solo altro uomo. Questo può dunque tanto più esistere presso gli angeli” Questo “tanto più” è qui del tutto significativo.

Esso mostra che nel trattamento della questione del linguaggio degli angeli nella teologia medievale, ciò che è in gioco, è ben la comunicazione umana. E pensare agli angeli, è ben ancora un modo per pensare agli uomini. Questa comunicazione, da solo a solo, nel segreto, questa comunicazione confidenziale, è presentata qui come una perfezione, e non come un’imperfezione dovuta alla finitudine dell’uomo. Essa è presentita come il completamento e la perfezione della relazione intersoggettiva. Per questa ragione, la si dichiara possibile per l’angelo, come è possibile e necessario per l’uomo. Con Tommaso, tutti i pensatori medievali accordano all’angelo questa capacità della parola confidenziale. Ed occorre aggiungere che se, con Tommaso, si pensa il linguaggio angelico come l’atto d’una volontà di condivisione d’un verbo interiore, questa comunicazione confidenziale non pone problemi particolari. Un angelo può ben non voler comunicare che con solo un altro angelo. Ma se questa comunicazione confidenziale è spiegata, essa non è altrettanto giustificata. Non si vede perché un angelo sceglierebbe di non comunicare che con un solo angelo. Essendo l’angelo quello che è, che può voler nascondere tenendolo segreto? Nessun pensatore nel Medio Evo risponde a questa domanda, se non ripetendo che quello che è possibile all’uomo lo è a maggior ragione per l’angelo.

Si ha qui l’impressione che, in una stupefacente circolarità, il linguaggio umano, che è dapprima pensato sul modello del linguaggio angelico, diventa a sua volta da modello a quello stesso linguaggio. Questa apparente circolarità ha nondimeno un profondo significato. Nel linguaggio umano, il segreto del linguaggio confidenziale, da solo a solo, è la condizione stessa della libertà dell’atto di linguaggio. Io dico quello che voglio a chi voglio. Ora la perfezione e la trasparenza del linguaggio angelico rischiano di togliergli la sua libertà, riportandola ad una specie di comunicazione totale, accessibile a tutti e come “automatica” ed obbligatoria, che esiste nel momento stesso in cui l’angelo esiste. Questo linguaggio sarebbe un linguaggio inutile, che non farebbe che ripetere quello che già l’essenza dell’angelo svela di colpo. Così è importante affermare questa possibilità del segreto per l’angelo, e di introdurre nella trasparenza del suo linguaggio una opacità volontaria che rende possibile lo spazio libero della comunicazione intersoggettiva.

Così il mondo degli angeli ridiventa simile al mondo degli uomini, allorché anche questi sono chiamati a diventare “come degli angeli”. Solo Duns Scoto, in mezzo ai pensatori medievali, rifiuta questa possibilità del linguaggio confidenziale (Opus Oxoniense Liber “, dist. 9, q. 2). Affermare che l’angelo possa nascondere il suo pensiero, dice Duns Scoto, è ammettere che l’angelo possa nascondere la sua essenza. E se l’angelo nasconde il suo pensiero non comunicandolo che ad uno solo, allora tutti gli altri angeli si accorgeranno ch’egli nasconde qualcosa e da ciò vedranno ch’egli nasconde. Così il mondo angelico non può ammettere segreto, ed è pura trasparenza. Dicendo ciò, Duns Scoto sembra affermare l’inutilità di ogni linguaggio per gli angeli, poiché, in quella trasparenza essenziale, un angelo può conoscere tutto di un altro angelo. Egli mantiene comunque la possibilità che vi sia un linguaggio degli angeli, perché, dice, la comunicazione espressa dal linguaggio non è identica alla comunicazione spontanea ed automatica realizzata da essenza ad essenza.

Da ciò, Duns Scoto scorge quello che costituisce l’essenziale della comunicazione, il rapporto d’una libertà ad un’altra libertà. L’essenziale della comunicazione non è dunque in quello che è comunicato, nell’informazione che si trasmette e la conoscenza che si offre. Questo essenziale è nell’atto stesso di comunicare, quell’atto attraverso il quale io incontro liberamente l’altro, mi dono a lui, allorché anche già lui possa sapere tutto e tutto conoscere di me. E’ “l’essere con” che realizza e rende visibile il linguaggio, come se fosse la firma di una comunione preesistente. L’analisi di Duns Scoto tocca dunque all’essenziale: nella comunicazione, e dunque nel linguaggio, quello che è importante non è quello che è detto, ma quelli che dicono, e che realizzano insieme, a partire e al di là di quello che è detto, uno spazio “di essere insieme”. L’essenziale nella comunicazione è dunque un sovrappiù, una gratuità, che ne giustifichi a essi solamente la necessità, al di là di tutte le necessità della vita quotidiana. Come pure è questa stessa gratuità e questo superfluo che giustificano, secondo Duns Scoto, quella parola inutile che è la parola di preghiera. Io parlo a Dio, non per dirgli qualcosa ch’egli sa già, ma perché io rispondo ad una parola ch’egli mi rivolge e che mi fa “essere con lui”. Così la parola angelica rassomiglia tutto quello che la parola umana sogna di essere.

Essa è comunicazione immediata che dice quello che è, senza il velo deformante dei segni linguistici. Essa è una parola intuitiva che legge e dice il cuore dell’essere, in una specie di visione perfetta. E’ una parola totalmente ed assolutamente libera, perché totalmente gratuita, dipendendo dalla sola libera volontà dell’angelo, manifestando tutto, e solamente tutto quello che vuole manifestare. Infine, essa è una parola totalmente vera, dunque totalmente sincera, senza ombra né pieghe, senza non detti né sottintesi, senza oscurità né insufficienza. Questo linguaggio è il linguaggio dell’essere se stesso, è l’essenza stessa dell’angelo che si mette a significare, un po’ al modo con cui il Verbo di Dio, nel quale Dio si dice, è Dio stesso, il Figlio di Dio. Così pensato il linguaggio angelico appare ben lontano dal linguaggio umano. Ma questo allontanamento stesso ne fa un modello ideale e sognato per questo stesso linguaggio.

Ogni volta che parliamo, che comunichiamo, noi sappiamo con scienza certa quel linguaggio degli angeli, perché è quel linguaggio degli angeli che vogliamo parlare, è quel linguaggio che sogniamo di parlare. Ma noi sappiamo che a differenza degli angeli, noi abbiamo un corpo, siamo nel mondo, nello spazio e nel tempo, dunque nell’urgenza o l’oblio. E tutto quello che noi abbiamo “in più” dell’angelo, appaiono come tanti ostacoli a quella immediatezza e quella trasparenza che noi sogniamo in ogni istante. Con l’ostinazione e l’accanimento dell’amicizia o dell’amore, o nella trasparenza illusoria della formula matematica, noi ci manteniamo in quell’orizzonte di parole essenziali, e dunque inutili, di parole che direbbero tutto, di modo che il tutto non avrebbe più bisogno di essere detto. Noi parliamo sempre in quella insufficienza di una parola che non è ancora una parola angelica, ed i nostri silenzi non sono che dei riposi o delle riprese di respiro, nella speranza folle di quella parola infine definitiva.

di don Marcello Stanzione

 
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