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Il Curato d'Ars e la virtù dell'umiltà PDF Stampa E-mail

Il Curato d'Ars e la virtù dell'umiltàRecentemente navigando in internet mi sono soffermato su un sito dove l’autore si presentava affermando di essere compositore, speaker, giornalista, scrittore, capo carismatico, ex bambino prodigio, pluristrumentista, insegnante di musica e concludeva affermando di essere tutto questo e molto di più… Qualsiasi studente di psicologia alle prime armi facilmente farebbe una diagnosi di inflazione di coscienza o ego ipertrofico causato da ipocompensazione da complesso di inferiorità. A livello di malattia spirituale la diagnosi è presunzione e superbia che è l’opposto della virtù dell’umiltà che ci rende simpatici mentre il presuntuoso si riempie di ridicolo da se stesso ed è deriso da tutti ottenendo non l’ammirazione degli altri che cerca disperatamente ma solo lo scherno. Per il curato d’ars invece l’umiltà era fondamentale. Ho raccolto le testimonianze di quelli che lo hanno a lungo conosciuto che affermano: CATERINA LASSAGNE, Direttrice de La Provvidenza. ...

...  La sua umiltà non è comune; egli si crede il minore di tutti. Dice talvolta al Fratello ch’egli si paragona ad un uomo di Ars che nomina e che è un debole di spirito. “Egli fa ancora i suoi affari, egli dice, ma con gli altri, egli è negato. Penso che sono come quello con gli altri curati”. E parlando talvolta di quelle persone povere di spirito come se ne trovano nelle famiglie, egli dice: “A casa nostra, i miei fratelli e le mie sorelle avevano abbastanza spirito, sono io che ero il più scemo”.

Egli diceva un giorno che aveva pensato: “Se ci si potesse dimenticarsi e perdere se stessi per essere tutto di Dio, quanto si sarebbe felici! Ma Adamo vive sempre”. Malgrado tutte le lodi che riceve ogni giorno, tutti i complimenti…

Egli riceve lettere lusinghiere che lo canonizzano: non vi fa attenzione. Un giorno, egli diceva: “Ho ricevuto una lettera; mi si descrive come un santo; in un’altra, mi si chiama ipocrita. Se credessi alla prima, avrei orgoglio; se credessi alla seconda, mi metterei in disperazione. Non farò attenzione né all’una né all’altra. Mi hanno scritto spesso se fossi un santo. Se mi si conoscesse, mi parlerebbero ben diversamente”.

Il Signor Curato narrava un giorno con piacere che un signore, venuto da lontano, che senza dubbio aveva sentito parlare di lui, si avvicina guardandolo fissamente e gli dice: “Siete dunque voi!”, con un’aria di disprezzo. Sì, ho ben capito, dice il Signor Curato, quello che voleva dire: che non fossi quello che credeva. Ve ne sono che mi credono qualcosa di grande; sono del tutto presi quando mi vedono. Comunque, lo si è visto più di una volta, i giorni di domenica, lasciare precipitosamente il proprio posto per rifugiarsi nella sua sacrestia e chiuderne la porta perché il predicatore diceva alcune parole a sua lode.

LOUIS BEAU, suo Confessore, curato di Jassans. Sembrava non fare affatto caso a quelle parole di lode. Egli non rispondeva nulla o faceva un semplice movimento che indicava che il ricordo delle sue grandi miserie era presente al suo pensiero.

ALFRED MONNIN, Missionario diocesano. Un giorno, Monsignor Devie, rivolgendogli la parola, gli disse: “Mio santo Curato”. Fu una vera desolazione. “Non pensavo che anche Monsignore si sbagliasse su di me. Occorre che io sia ipocrita!”.

PIERRE ORIOL,  fedele abitudinario di Ars. Egli si definiva un cattivo utensile tra le mani del Buon Dio ed aggiungeva che se Dio avesse trovato un più cattivo utensile, se ne sarebbe servito al suo posto.

FRATEL ATTANASIO, Direttore della scuola di Ars. Quando vi ci recammo (alla scuola dei ragazzi) per la prima volta, un allievo doveva fargli un complimento. Quando vide il fanciullo avvicinarsi a lui, con il foglio in mano, comprese di cosa si trattasse. Si precipitò su di lui e gli strappò il foglio dalle mani dicendo: “Vattene a recitare un’Ave Maria per me, che è meglio”. Lo stesso giorno, un fatto dello stesso genere accadde presso le Suore. Farò qui anche due precisazioni importanti. La prima, è che quando vogliamo sapere qualcosa che lo riguardava e che era a suo elogio, occorreva industriarsi e portarvelo insensibilmente e senza che egli se ne accorgesse nel parlarne. Come subito notava dove volevamo giungere, egli s’arrestava subito dicendo, se volevamo continuare: “Basta, ho già detto troppo”. La seconda, è che gli accadeva abbastanza spesso di raccontare ciò che poteva aver tratto da qualche punto di vista della sua vita: ma era nella familiarità della conversazione e poi per la semplicità e l’abbandono del suo carattere.

FRATEL GABRIEL TABORIN, Superiore dei Fratelli della Sacra Famiglia. Per favorire la devozione dei parrocchiani di Ars, ebbi l’idea di fare un libretto sotto questo titolo “L’angelo conduttore dei pellegrini di Ars”. Prima di iniziarlo, consultai il servo di Dio che accolse con gioia quel progetto: “Fatelo subito, mi incarico di farvene vendere sessanta esemplari al giorno”. Composi il libro, lo sottomisi all’approvazione del vescovo diocesano. Quando fu stampato, ne portai sei esemplari a Don Vianney che li ricevette con gioia e riconoscenza dicendomi che quel libro avrebbe fatto molto bene. Nella prefazione, avevo avuto la disgrazia di rintracciare la sua vita, in rapidissimi tratti, come modello di virtù e di santità. L’indomani mattina, avendomi scorto in chiesa, mi fa segno di andare con lui con un’aia afflitta e di severità straordinaria. Avendolo seguito in sacrestia, mi dice con animazione e versando lacrime abbondanti: “Non vi credevo capace, amico mio, fare un cattivo libro”. – Come?”. – “E’ un cattivo libro, un cattivo libro. Ditemi subito quanto vi è costato, ve lo rimborserò e lo bruceremo”. Fui preso da meraviglia e gli chiesi di nuovo in cosa il libro fosse cattivo. “Voi parlate di me come di un uomo virtuoso, come di un santo, nel mentre che non sono che un povero ignorante, un misero sacerdote”. – “Ma, padre, ho portato questo libro a sacerdoti istruiti. Monsignor Devie ne ha rivisto tutte le prove: ha dato la sua approvazione. Non può essere un cattivo libro!”. Le lacrime non fecero che raddoppiare. “Ebbene togliete tutto quello che mi riguarda ed allora sarà un buon libro”. Al mio ritorno ad Ars, non ebbi nulla di più urgente di dire a Monsignore tutto quello che era accaduto. “Che lezione di umiltà ci dona a voi ed a me questo santo sacerdote, ci dice il prelato, aggiungendo comunque: guardatevi bene dal togliere qualcosa, ve lo proibisco”. Seguii il consiglio del mio vescovo, ma il servo di Dio non volle mai apporre sul libro la sua firma, che poneva così facilmente sui libri e gli oggetti di pietà che gli si presentavano.

MARIA GIOVANNA CHANAY, cuoca della Casa de La Provvidenza. Le mie compagne ed io avevamo spesso sentito da Don Vianney stesse delle cose che lo riguardavano. Non è che lui amasse intrattenersi su di lui. Nulla al contrario era più opposto alle sue abitudini. Io penso che nessun uomo sia stato più morto a se stesso. Ma a seguito di questa semplicità e di quella schiettezza che ho prima segnalato, egli si dimenticava talvolta e si lasciava andare alla conversazione. In quei buoni momenti, noi usiamo una certa industria: abbiamo l’aria di non volerne sapere di più su quello cui più teniamo, facciamo le indifferenti. Poi, lo mettiamo sulla strada, gli chiediamo dolcemente e lui, non dubitando nulla, ci rispondeva come un bambino. Si accorgeva della sorpresa, si fermava di colpo e ci vietava di dire qualcosa di ciò che gli era così sfuggito. Queste note spiegano come le mie compagne ed io avessimo potuto ottenere da lui la conoscenza di tanti particolari che riguardavano la sua vita.

di Don Marcello stanzione

 
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