La scuola al di qua e al di là del crocifisso |
Non ci sono traduzioni - There are no translations - Nein Übersetzungen - No traducciones - Aucun traductions La questione dei crocifissi nelle scuole statali, negli ultimi anni, in Italia è stata oggetto di dibattiti e polemiche che, di tanto in tanto, tornano fuori. Questa questione è uno degli aspetti della laicità o del laicismo delle scuole statali. Come è noto, le norme sull’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche sono presenti nell’art. 118 del R.D. 30.04.1924, n. 965 e nell’art. 119 del R.D. 26.04.1928, n. 1928 e nella tabella C allegata allo stesso. In un parere del 27 aprile 1988 il Consiglio di Stato precisa che “la Croce, a parte il significato per i credenti, rappresenta un simbolo della civiltà e della cultura cristiana, della sua radice storica come valore universale, indipendente da specifica confessione religiosa”. Ma lasciamo da parte la questione giuridica. Cosa significa togliere un crocifisso da un’aula o da una scuola? Togliere un crocifisso non è soltanto togliere quell’oggetto da quel muro, ma è anche un atto di volontà con il quale si vuole ... ...togliere il suo significato dai propri pensieri. Il crocifisso non è un simbolo esclusivo della cultura cattolica. Gesù a chi, e dove, parlava? Parlava a tutti, dappertutto. Non solo ai credenti in questa o in quella fede. Gesù, oggi come ieri, cosa rappresenta? Rappresenta tante cose. Ad esempio, rappresenta le beatitudini (Mt 5, 1-10; cf. ad es. Lc 6, 20-23). “Beati i poveri in spirito” (Mt 5, 3). Togliere il crocifisso significa togliere dai propri pensieri questa beatitudine dei “poveri in spirito” e tornare indietro. Cosa c’era prima del “beati i poveri in spirito”? C’era la legge del più forte, per cui o domini o sei dominato, o vinci o sei vinto, o conquisti o sei conquistato, o sei il padrone o sei il servo, o sei ricco o sei povero. Nell’antichità la cultura dominante era questa. Io penso soprattutto ai libri di Tucidide, che ci raccontano la guerra del Peloponneso. Ma è solo un esempio. Togliere il crocifisso significa quindi negare la beatitudine dei poveri in spirito e riprendere il modello del più forte, del dominatore, del vincitore, del conquistatore, del padrone, del ricco. La beatitudine che si toglie non è solo quella del povero in spirito, ma anche quella dell’afflitto (Mt 5, 4), del mite (Mt 5, 5), di chi ha fame e sete della giustizia (Mt 5, 6), di chi è misericordioso (Mt 5,7), di chi è puro di cuore (Mt 5,8), di chi è operatore di pace (Mt 5,9), di chi è perseguitato per causa della giustizia (Mt 5, 10) e di chi è insultato e perseguitato per credere in queste beatitudini (Mt 5, 11). Ma il crocifisso non rappresenta solo le beatitudini. Rappresenta tutto Gesù, tutta la sua vita. Rappresenta l’ “amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato”, cioè con amore non tanto giusto quanto piuttosto misericordioso, non solo umano, ma anche e soprattutto soprannaturale, comunicato perché ricevuto, non limitato ma infinito, senza limiti, proprio perché di origine divina. Oggi, nelle scuole dove lavoro e nei libri che leggo, sento tanto parlare di giustizia, quasi mai di misericordia; di cose controllabili, misurabili, calcolabili, certificabili, quasi mai di cose che superano queste nostre possibilità di controllo, misura, calcolo, certificazione; di inizi materiali ben osservabili, quasi mai di inizi altri. Rappresenta il “fate agli altri quello che vorreste gli altri facciano a voi e non fate agli altri quello non vorreste vi facciano”. Rappresentano il “porgi l’altra guancia”, il “lascia tutto, prendi la tua croce e seguimi”, il “non giudicate”, il “non affannatevi di quello che mangerete o berrete”. Rappresenta la volontà, il coraggio, il valore dell’essere “pecore in mezzo ai lupi”. Togliere il crocifisso significa togliere tutto questo: voler essere non “pecore”, ma “lupi”; non voler prendersi nessuna croce, ma, per quanto possibile evitarle tutte; volersi amare come ci pare, come più ci è comodo, e fare dell’amore, nel suo significato strettamente umano, qualcosa a nostro uso e consumo; non sapersene che fare di una qualche misericordia, e preferire una spietata giustizia che ci siamo costruiti, e ci continuiamo a costruire, da soli. Alcuni momenti più significativi della vita di Gesù sono stati riassunti in una preghiera tradizionale, quella del rosario. Nel primo mistero della gioia si rimanda all’annuncio dell’angelo a Maria (cf. Lc 1,26-38). Maria, la più povera in spirito delle donne, è la più innalzata fra le donne: innalzata a madre di Dio. Nella sua vita si fa presente il soprannaturale, una grazia che ha trasformato la sua esistenza e l’ha fatta partecipe di Dio. Togliere il crocifisso significa togliere questa possibilità di innalzamento dei poveri in spirito, significa escludere la possibilità dell’intervento del soprannaturale, dell’azione della grazia nella nostra vita, significa non credere nella possibilità di partecipare alla vita di Dio. Nel secondo mistero della gioia il rimando è alla visita di Maria a Elisabetta (cf. Lc 1,39-47). Elisabetta dice a Maria: “Benedetta tu fra le donne”. Fra tutte le donne, la più benedetta è Maria, proprio perché è stata la più povera in spirito. Togliere il crocifisso significa dire: “no, Maria non è benedetta fra le donne, è solo una fra le donne, e a noi non interessa ricordarla né tantomeno prenderla a esempio o modello di benedizione della povertà in spirito”. Nel terzo mistero della gioia si ricorda la nascita di Gesù (cf. Lc 2, 1-14). Gesù nasce in povertà. Giuseppe e Maria vivono, da poveri in spirito, anche in una condizione di povertà materiale, e Gesù nasce in questa condizione. Non è il dio astratto dei filosofi, non è un dio lontano, ma è un Dio personale che si abbassa e si fa partecipe della nostra stessa condizione esistenziale, delle nostre povertà, dei nostri limiti, delle nostre sofferenze. Togliere il crocifisso significa riprendere il dio astratto dei filosofi, un dio lontano, oppure fare a meno di Dio, quale che sia. Nel quarto mistero si medita la presentazione di Gesù al tempio (cf. Lc 2,27-35). Simeone, parlando a Maria, dice che Gesù è “segno di contraddizione”. Togliere il crocifisso significa non volerle, queste contraddizioni. Nel quinto mistero l’attenzione è sul ritrovamento di Gesù al tempio (cf. Lc 2,41-52). Giuseppe e Maria cercano Gesù, non lo trovano. Alla fine lo trovano nel tempio. Dove lo stavano cercando? Non hanno cominciato a cercarlo nel tempio: hanno cominciato la loro ricerca in altri posti. Togliere il crocifisso significa continuare a cercare in altri posti. Nel primo mistero del dolore l’immagine è quella dell’agonia di Gesù nel Getsemani (cf. Lc 22, 39-48). Togliere il crocifisso rappresenta la volontà di togliere l’agonia dalla nostra vita, l’agonia in quanto tale e l’agonia di Gesù in particolare. Come a dire: non c’entriamo niente e non vogliamo averci a che fare, abbiamo altro di cui occuparci, altro a cui pensare. Nel secondo mistero del dolore troviamo la flagellazione di Gesù (cf. Gv 18,33.36-19,1). Nel terzo l’incoronazione di spine (cf. Lc 27,27-31). Nel quarto il viaggio di Gesù al Calvario (Lc 23, 26-32). Nel quinto la crocifissione di Gesù (cf. Lc 23,33-34.39-46). Qui, uno dei malfattori appesi alla croce insieme a Gesù lo provocava: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!”. Rappresentava così la presa in giro di chi continua a ragionare con una logica che non è quella delle beatitudini, ma quella di una logica esclusivamente umana, ottimamente rappresentata da quelli che oggi vengono comunemente chiamati i “classici greci”, ateniesi, che non può trovare altre risposte fuori da una visione tragica della vita e del mondo o da un atteggiamento comico, satirico di ironia e autoironia molto amaro, molto frustrato, molto deluso e rassegnato. Togliere il crocifisso significa tornare alla tragedia e alla commedia, togliere la speranza. Significa continuare a pensare “da greci”, secondo una logica umana, non ammettere quella della beatitudini. Poi ci sono i misteri della gloria. Il primo: la risurrezione di Gesù (cf. Gv 20, 1.11-18). Il secondo: l’ascensione di Gesù al cielo (cf. Mc 16, 15-20). Il terzo: la discesa dello Spirito Santo (cf. At 2, 1-11). Il quarto: l’assunzione di Maria in Cielo (cf. Ap 21, 1-5). Il quinto: la gloria del regno di Dio (cf. Mt 5, 1-12). Tutti questi cinque misteri della gloria parlano della realtà soprannaturale. Voler togliere il crocifisso significa voler togliere questa realtà soprannaturale. Questi misteri parlano della vita umana come un cammino verso l’eternità. La volontà di togliere il crocifisso corrisponde alla volontà di togliere questa meta dalla realtà umana e di sostituire, a questo itinerario terreno verso la felicità di Dio in Cielo, un itinerario verso il nulla, senza una meta ultima al di fuori di quella di un mucchietto di ossa. Ci sarebbero, nella preghiera del Rosario, anche i misteri della luce, anche se sono stati proposti solo di recente dal papa Giovanni Paolo II. Il primo: il battesimo di Gesù nel Giordano (cf. Mc 1,9-11); il secondo: il mutamento dell’acqua in vino alle nozze di Cana (cf. Gv 2,1-10); il terzo: l’annuncio del Regno di Dio (cf. Mc, 1,12-15); il quarto: la trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor (cf. Mc 9,2-8); il quinto: l’istituzione del sacramento dell’Eucaristia (cf. Mc 14, 22-25). Togliere il crocifisso significa voler togliere anche questi ricordi dalla nostra cultura e dalla nostra storia. Il parere che, il 27 aprile 1988, aveva dato il Consiglio di Stato, cioè che “la Croce, a parte il significato per i credenti, rappresenta un simbolo della civiltà e della cultura cristiana, della sua radice storica come valore universale, indipendente da specifica confessione religiosa”, io credo che possiamo continuare a tenerlo presente. Quel “valore universale, indipendente da specifica confessione religiosa”, lo vedo in tutte queste sottolineature della vita di Gesù, a partire dalla logica delle beatitudini, che è la logica della croce e dell’amore con la a maiuscola. Io vedo nel crocifisso il simbolo di questa logica delle beatitudini, prima fra tutte quella dei poveri in spirito, che è la stessa della logica della croce e di quella dell’amore, tre aspetti di una medesima realtà. L’alternativa è la legge del più forte, dell’homo homini lupus, come scriveva Hobbes, ciascun uomo lupo a ciascun altro uomo; è la rincorsa di ciascuno (e beato chi sa fare la golpe o il lione, la volpe e il leone) al suo particulare, come diceva il Machiavelli, al suo interesse particolare, al suo tornaconto, al suo utile personale, egoistico e individualistico. L’alternativa è una visione della vita e del mondo come lotta per la sopravvivenza e per la prevaricazione degli uni sugli altri, dove o si domina o si è dominati, o si vince o si perde, e dove la tragedia delle persone e dei gruppi è solo tragedia e tale resta. Al tempo stesso, questa logica, alternativa a quella della croce, dell’amore e delle beatitudini, corrisponde a un’interpretazione della vita e del mondo come cammino, di tutti e di ciascuno, attraverso la spietata, disgustosa e orrenda macelleria della storia, verso un mucchietto di ossa, verso un nulla. Può anche andarci bene, ma dobbiamo esserne consapevoli nel momento in cui togliamo i crocifissi dai muri delle scuole. L’alternativa oggettuale alla croce può essere la fotografia, il ritratto o la statua di qualche altro grande uomo, può essere qualche bandiera, può essere qualche simbolo di pace o di fratellanza universale; l’alternativa oggettuale alla croce può essere anche, semplicemente, l’assenza, il vuoto, il nulla. Ma l’alternativa profonda alla croce è una visione assolutamente pessimistica e tragica delle persone e della storia, un’idea dell’uomo come “vana ombra” (Sofocle, Aiace, 125-26), anzi come “il sogno di un’ombra” (Pindaro, Pitiche, 8.95-97), per cui meglio di tutto sarebbe non nascere e, se proprio capita la disgrazia di nascere, la sorte migliore sarebbe morire quanto prima possibile (Teognide, I.425-28; Sofocle, Edipo a Colono, 1224-28; forse anche Aristotele, fr. 44 Rose). Per non parlare delle modalità di interpretare e di vivere l’amore, che per questi antichi saranno state, a volte, belle quanto si vuole, ma comunque sempre infinitamente più limitate di quelle cristiane (“amatevi come io vi ho amato”); per non parlare, d’altra parte, anche dell’etica, che per questi maestri dell’antichità non poteva essere un’etica della misericordia ma, nella migliore delle ipotesi, un’etica della giustizia. Tutte queste considerazioni, di carattere, per così dire, “filosofico”, esistenziale, sull’interpretazione della condizione umana e della storia, prescindono dal fatto, più volte ripetuto da più parti, che la storia, la cultura, la tradizione e l’identità italiana ed europea non possono fare a meno dall’elemento cristiano, per cui togliere dalle scuole i crocifissi, i presepi e le recite di Natale, gli auguri (e le vacanze) di Natale e di Pasqua, le festività dei morti e dei santi (magari sostituendole con le feste di halloween), perfino il nostro calendario e parte del nostro vocabolario, corrisponde a cancellare una buona parte della nostra storia, della nostra cultura, della nostra tradizione e della nostra identità. Non concludo con una difesa dei crocifissi e delle altre usanze cristiane. Non ne avrebbero bisogno. Non tanto perché sanno difendersi benissimo da sé, quanto piuttosto perché non gli interessa difendersi. Concludo, invece, in difesa di una scuola statale intelligente, aperta, accogliente, che, disponibile a essere rispettosa di tutti, non si occupa di catechetizzare, in nessuna direzione (non è forse possibile catechizzare anche all’ateismo?), non si propone né di cristianizzare né di scristianizzare, né di promuovere la fede né di ostacolarla, proprio perché il suo ambito, il suo compito, il suo ruolo e la sua funzione prescindono da quello delle chiese; in difesa di una scuola che, facendo a meno di farsi carico di faccende religiose, non rinuncia alla propria storia, alla propria cultura, alla propria tradizione, alla propria identità. Anche perché, altrimenti, il rischio sarebbe quello di fare la stessa fine della Russia. Nel luglio del 1954 il partito comunista dell’Unione Sovietica aveva imposto che le scuole promuovessero l’ateismo di Stato, attraverso programmi educativi e testi scolastici scientificamente studiati e predisposti. Questo intenso programma, in quei paesi oggi corrispondenti all’ex Unione Sovietica, non ha avuto altra conseguenza che preparare il terreno per una rinascita della religione dagli anni Novanta ad oggi. Sono un insegnante di scuola statale, e la difendo. Andrea Muni è insegnante di scuola elementare statale. Ha scritto Cose che gli insegnanti non dicono. Come i bambini imparano e si costruiscono la propria storia, Armando, Roma 2009 (in corso di stampa). di Andrea Muni |
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