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La Chiesa ed i rapporti con il mondo Palestinese"Gaza e Betlemme sono due delle più grandi prigioni a cielo aperto del mondo": sono parole di monsignor William Kenney, vescovo ausiliare di Birmingham, in Inghilterra, raccolte in una intervista al periodico "Terrasanta" della Custodia francescana del Santo Sepolcro. Monsignor Kenney fa parte della delegazione dei vescovi europei e nordamericani che da oggi è in visita in Terra Santa. Con queste parole, mette in luce come le parole del cardinal Martino (che aveva paragonato Gaza ad un "lager") non rappresentano, ed è vero, l'espressione ufficiale della politica estera della Santa Sede, ma certamente hanno espresso qualcosa che, tra le stanze vaticane, è opinione comune. Tanto è vero che Kenney commenta così le parole del cardinal Martino: "Rammento quello che scrissi due anni fa in un articolo per il Birmingham Post, e cioè che ero appena rientrato da due delle più grandi prigioni a cielo aperto del mondo: la Striscia di Gaza e Betlemme.

Quindi direi che non c'è nulla di nuovo".

Con le parole dette nel discorso al corpo diplomatico, Benedetto XVI ha calibrato i rapporti diplomatici con Israele: ha rinnovato l'appello alla pace, e ha auspicato che alle prossime elezioni in Medioriente (riferendosi non solo a quelle anticipate in Israele, ma anche agli altri appuntamenti elettorali previsti) il popolo voti leader capaci di portare ad una riconciliazione. Un discorso che l'Osservatore Romano ha salutato come "concreto", e al quale hanno fatto seguito le dichiarazioni dell'ambasciatore d'Israele presso la Santa Sede Mordechai Lewy, che ha definito "più buoni che mai" i rapporti tra Santa Sede e Israele e ha fatto notare come le parole del cardinal Martino non fossero espressione della politica estera vaticana.

Seppur molto calibrato diplomaticamente, il discorso ha deluso parte del mondo ebraico, che si aspettava una condanna della Santa Sede ai missili su Hamas.

Con il mondo ebraico, ci sono almeno tre questioni aperte: la beatificazione di Pio XII (osteggiata anche da esponenti dell'attuale governo israeliano), la questione dell'Accordo Fondamentale per la custodia dei luoghi in Terrasanta, e infine la liberalizzazione dell'antico rito nella liturgia cattolica, che ha ripristinato la preghiera per la conversione dei giudei (cosa che ha suscitato molte polemiche nella comunità ebraica). E poi c'è in ballo il viaggio del Papa in Israele: dovrebbe aver luogo a maggio, c'è l'intenzione di farlo, ma al momento si deve valutare se ci sono le condizioni diplomatiche perché il viaggio possa aver luogo.

In più di tre anni di pontificato, Benedetto XVI ha innovato in ciò che riguarda i rapporti tra le due fedi, la cristiana e l'ebraica. Ma nel frattempo poco o nulla sembra essere cambiato nella politica vaticana nei confronti di Israele.

La sola variante è negli accenti: se prima gli attacchi ad Israele erano incessanti, anche dalle colonne dell'Osservatore Romano, ora lo stesso giornale della Santa Sede ha ammorbidito i toni, dando più spazio al dibattito religioso.

La crisi di Gaza ha messo però in luce di nuovo i protagonisti del dialogo "sotto traccia" con la galassia palestinese, in primis l'arcivescovo emerito di Gerusalemme Michael Sabah, palestinese cristiano. E non è un caso che il mondo cattolico guardi al mondo palestinese con maggiore interesse: la percentuale di cattolici in Israele è esigua (circa l'1 per cento), ma la maggioranza di questi è rappresentata da arabi cristiani. La Chiesa, ha osservato Gianni Baget Bozzo, "parla il linguaggio delle proprie comunità locali, e non può restare estranea alle sofferenze dei propri fedeli palestinesi". 

di Andrea Gagliarducci

 
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