Scienziati massoni |
Non ci sono traduzioni - There are no translations - Nein Übersetzungen - No traducciones - Aucun traductions Se l’ex gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Armando Corona, non fosse stato a conoscenza di documenti che attestano l’appartenenza alla Massoneria di Albert Einstein (1), di certo non avrebbe inserito un personaggio di tale rilevanza fra i «figli della vedova» (2). Nemmeno per il «nobile» fine di aumentare la gloria del cosiddetto grande architetto dell’universo (GADU). È evidente che annoverare scienziati del calibro di Einstein, Fermi, Fleming tra le fila di un’istituzione tanto discussa ed ambigua come la Massoneria, non può che contribuire ad accrescerne il prestigio, l’autorevolezza e la liceità. Qualità che tuttavia non corrispondono alla vera essenza di tale sfuggevole consorteria. Che ancora oggi continua la tradizione pedagogica tipica delle antiche gilde dei liberi muratori. Ad esempio, quella dei Maestri Comacini, che operava fin dal secolo X tramandando oralmente al suo interno, da maestro ad apprendista, conoscenze ... ... relative non solo alla pura arte muratoria. Ma anche, e soprattutto, insegnamenti di carattere religioso, rituale e simbolico che col trascorrere del tempo hanno acquisito una valenza fortemente esoterica. La massoneria può ritenersi infatti come un’istituzione iniziatica: «Antica quanto il mondo, perché è la depositaria di una tradizione che risale ai primordi della civiltà umana, la tradizione iniziatica, esoterica, occulta come meglio si vuol chiamare, e nel medesimo tempo può considerarsi nata al principio del XVIII secolo, perché in tale epoca si ebbe la conclusione di un processo intimo che da tempo travagliava le corporazioni muratorie inglesi». Benché questa istituzione sia legata al segreto iniziatico, e dunque impenetrabile di principio (il «segno di pena» è solitamente denominata la punizione che colpisce inesorabilmente chi viola la consegna del segreto), si sa che essa «rappresenta l’armata silenziosa che lavora nel mondo occulto, cioè nel sottosuolo della storia» (3), per promuovere il progresso ed il bene dell’umanità. Questa finalità filantropica costituisce tuttavia solo una millantata copertura, utile spesso a mascherare attività non propagandabili, ma redditizie, operate da logge cosiddette deviate. Se così non fosse, non avrebbe alcun senso lavorare silenziosamente nel sottosuolo della storia per beneficiare l’umanità. Il bene infatti è palese e diffusivo, come la luce, che è al tempo stesso splendore e grazia. L’azione pedagogica dell’ideologia massonica si struttura comunque lungo linee concrete, le quali tuttavia convergono armonicamente in un’unica meta: la costruzione di un’etica universale, superamento e sintesi di tutte le etiche religiose. A tale riguardo, nel 1985, la Gran Loggia d’Inghilterra, madre di tutte le grandi logge regolari del mondo, ha pensato bene di emanare un documento, dal titolo «Dichiarazione su Massoneria e religione», nel quale si afferma che la Massoneria, non essendo una religione, è aperta a tutti gli uomini che in nome della tolleranza, pur professando fedi religiose diverse, sono disposti ad organizzare la propria esistenza al fine di contribuire al perfezionamento dell’umanità (4). Questo documento, al di là di ogni possibile valutazione, costituisce un notevole passo in avanti in vista del fine sincretistico precedentemente richiamato. Infatti, se effettivamente la Massoneria non fosse una religione, allora decadrebbe anche la tesi dell’«inconciliabilità» con il cattolicesimo, affermata a partire dal 1738 da Papa Clemente XII nell’Enciclica «In Eminenti». Anche Pio IX accusò in 116 documenti ufficiali tale setta di fuorviare le coscienze. Nella «Singulari quidam», del 9 dicembre 1854, definisce la Massoneria come un’istituzione fondata sulla «visione illuministica razionalistica della realtà» che in nome della ragione divinizza l’uomo con la sua coscienza, celebrando il libero esame. Sulla stessa linea, Leone XIII, che nel suo lungo Pontificato firmò contro la fratellanza massonica più di 200 documenti. Nell’«Humanum genus», del 20 aprile 1884, imputa la responsabilità della corruzione interna alla Chiesa ed alla società a tale setta che, sulla base del naturalismo religioso, proclama «la sovranità ed il magistero assoluto dell’umana ragione… pigliando sembianze accademiche e scientifiche» (5). In effetti, il pitagorismo costituisce il fiore all’occhiello ed il punto di forza sul quale gli iniziati hanno potuto far leva, a partire dal periodo post rinascimentale, per determinare il tramonto nella mente umana della coscienza religiosa tradizionale, per liberare un’epoca che andò sempre più permeandosi delle vestigia del materialismo scientista e razionalista. Il ruolo svolto dagli alchimisti e dai rosacroce, per preparare l’avvento della scienza moderna, non costituisce un segreto, né tantomeno un’illazione. La ricerca di una verità naturale che escludesse ogni riferimento alla dimensione trascendente rappresenta infatti uno degli obiettivi che ha caratterizzato fin dai primordi l’opera iniziatica rosacrociana (6). Tra i rosacrociani accaniti fautori della rivoluzione esoterica rinascimentale, ricordiamo Michael Maier (1568 - 1622), il più importante medico alchimista dai tempi di Paracelso, che riteneva i Rosacroce custodi di un’antica tradizione segreta, i cui membri: «conoscono la vera astronomia, la vera fisica, la matematica, la medicina e la chimica, e tramite il loro sapere sono in grado di produrre dei risultati rari e stupefacenti». Maier tra l’altro era in stretto «contatto» col re Giacomo I Stuart, come dimostra il messaggio di auguri di Natale, spedito nel 1612: «Auguri a Giacomo I, da lungo tempo re della Gran Bretagna. Con la tua sincera protezione, possa la rosa essere gioiosa» (7). Alla luce di questo antico sodalizio fra scienziati ed iniziati, al giorno d’oggi stanno riemergendo sempre più i gemellaggi ideologici che collegarono l’antico ordine esoterico dei Rosacroce alla Massoneria, la Massoneria alla Royal Society, e questa accademia alla scienza moderna (8). Nessuna meraviglia allora se i due illustri precursori di Einstein, Galileo e Newton, volenti o nolenti, sembrano rientrare in quella catena iniziatica che ancora oggi opera al fine di riallacciare, in modo sorprendentemente efficace, attraverso l’indagine della natura, il nuovo con l’antico, la ragione più stretta al mito più puro. Perpetuando così, attraverso una presunta evoluzione scientifica degli eletti, l’effettiva involuzione spirituale dei profani. Proprio l’indagine della natura, effettuata mediante il linguaggio al tempo stesso rigoroso e simbolico della geometria, la misteriosa «G» che compare all’interno del pentalfa massonico, costituisce l’intima filigrana dell’antico pitagorismo. A partire dal teorema di Pitagora che: «è presentato come pietra di fondazione di tutta la muratoria, e non credo che in questo caso Anderson si riferisca esclusivamente all’architettura» (9). Se uno scienziato della portata di Einstein varcò effettivamente i portali delle iniziazioni rituali, così come affermato da diverse fonti (10), a noi non è dato saperlo. Ma in tal caso, sarebbe difficile escludere che la sua «fede» non abbia interagito con la sua «scienza». Già Galilei infatti proclamava l’unità di fede e scienza, nella famosa lettera al Castelli, del 21 dicembre 1613, rivendicando il diritto della ragione di interpretare le Sacre Scritture con le stesse regole utilizzate per leggere il libro della natura, in quanto due verità non possono contraddirsi. Ma siccome la scienza galileiana è sostanzialmente pitagorica - come ha correttamente rilevato M. Caleo, già nel 1992 (11) -, e poiché per i pitagorici non c’è distinzione tra fede e scienza, allora anche la fede proclamata dallo scienziato pisano, nonostante l’apparenza cattolica, non può non dirsi pitagorica. E dunque anticristiana. Difatti, tra pitagorismo e cristianesimo non può esserci accordo, così come non c’è accordo tra le «Gerarchie del fuoco» e le «Gerarchie dell’Acqua» (12), come ben sanno gli iniziati. Di conseguenza, la religione intesa come esperienza, non può conciliarsi con quella intesa come dogma. Quest’ultima non celebra l’equivalenza, ma il primato della fede sulla ragione: «Ciò che si deve credere per fede da parte della totalità degli uomini non è inteso dagli intelletti» (13). In questa chiave di lettura, si comprende perché alla base della teoria della relatività ristretta non ci sia tanto il tentativo di spiegare in termini matematici il fallimento dell’esperienza di Michelson-Morley, come ammise lo stesso Einstein e come generalmente si scrive. Quanto l’intenzione di dimostrare una personale convinzione circa la non esistenza dei moti assoluti, «liberando la luce dall’etere e sottomettendola agli stessi principi della materia» (14). O se vogliamo, il proposito, in termini generali, di sradicare dalla cosmologia l’idea stessa di «direzione assoluta», l’«alto» ed il «basso», relativizzando e completando quella demolizione del cosmo e geometrizzazione dello spazio, che Koyré imputò alla filosofia di Newton (15). E’ vero infatti che il newtonianesimo significò un cambio di direzione e di metodo nell’approccio conoscitivo dell’uomo nei confronti della dimensione naturale. Ma in un senso più profondo, l’opera di Newton può considerarsi come un ponte ideologico con quel passato remoto, premoderno, irrazionale, dal quale lo scienziato inglese trasse ampia ispirazione, e del quale consentì il concreto ritorno nell’ambito culturale, mediante la nuova rigorosa formalizzazione del linguaggio scientifico. Peraltro, già Leibniz accusò Newton «di utilizzare l’enorme prestigio culturale della matematica per reintrodurre principi occulti e di aver abbandonato il sogno di dare una rappresentazione completamente meccanicistica dell’universo» (16). In precedenza, abbiamo cercato di mettere in evidenza il ruolo che Newton, grande cultore della scienza alchemica, ebbe sul determinarsi della nascente massoneria inglese, che si strutturò nelle sue linee attuali attraverso l’opera del suo discepolo Desaguiliers, fondatore ufficiale della Grande Loggia inglese, insieme ad Anderson. Questa tesi sembra essere comprovata dagli innumerevoli riferimenti alla cosiddetta «sapientia veteres» che il grande scienziato alchimista disseminò nei suoi scritti. Non solo nei quaderni segreti, zeppi di rimandi magici e spiritualistici così scandalosi da non essere stati ancora pubblicati. Ma anche nelle opere ufficiali più importanti, ove lo scienziato fa spesso riferimento, ad esempio, ad un non precisato «spirito sottilissimo», la cui natura si può tuttavia comprendere alla luce della cultura alchemica, dalla quale l’autore trasse ampiamente ispirazione. Newton infatti già nel commento alla definizione della «quantità di materia» che apre i «Principia» allude ad un enigmatico mezzo, molto affine all’etere universale degli alchimisti: «che liberamente penetra attraverso gli intervalli delle parti», del quale tuttavia non chiarisce la natura. Ma ne riafferma l’esistenza nello «Scolio conclusivo»: «Ora sarebbe lecito aggiungere qualcosa circa quello spirito sottilissimo che pervade i grossi corpi e che in essi si nasconde …» (17). E ne ripropone l’effettiva presenza nei cosiddetti «Scolii classici»: «Gli antichi che meglio interpretavano la filosofia mistica insegnavano che un certo spirito infinito pervade tutti gli spazi e contiene e vivifica il mondo intero; e questo spirito fu generato dal supremo nume, secondo il poeta citato dall’apostolo: in esso viviamo, ci muoviamo e siamo… i filosofi insegnavano che la materia si muove in questo spirito infinito ed è agitata da questo spirito in modo non incostante ma armonicamente, cioè secondo le precise leggi geometriche della natura» (18). Questo vago «spirito sottilissimo» non costituisce peraltro l’unico riferimento alla filosofia occulta presente nell’opera di Newton. Un chiaro cenno al principio alchemico della trasmutazione degli elementi emerge dal suo trattato di «Ottica», ove scrive che: «La trasformazione dei corpi in luce - e viceversa - è conforme alle leggi della Natura, che si mostra ben lieta di tale trasmutazione». Materia e luce vengono considerate da Newton come espressioni e forme di un’unica sostanza, quello «spirito sottilissimo» indagato e coltivato dagli alchimisti rinascimentali, alacremente impegnati nella ricerca della cosiddetta «quintessenza» universale. Questa potentissima ma sfuggevole sostanza costituirebbe la sintesi di tutti gli elementi, sotto la forma di una imprecisata «energia-luce», in grado di riprodurre eventualmente gli elementi specifici, in particolare il vagheggiato oro alchemico. Riemerge in tale prospettiva la dottrina dell’eternità della materia, espressa nell’ambito della chimica dalla legge di Lavoisier: «in natura, nulla si crea e nulla si distrugge». E specificata, in ambito iniziatico, dalla legge spiritualista dell’immortalità dell’anima: «Tutto è eterno. Spirito e Materia sono due modi di essere di una unica energia cosmica immortale». Infatti, è proprio degli iniziati «sviluppare» quelle forze dello spirito che conducono all’identificazione in Dio: «che noi massoni veneriamo sotto l’equazione matematica del GADU [Grande Architetto dell’Universo]» (19). Se consideriamo lo «spirito sottilissimo» come sinonimo di energia, allora l’affermazione di Newton, riguardo alla trasformazione di un corpo in luce, diventa molto simile alla famosa relazione di equivalenza, E = mc2, ricavata da Einstein nei primi anni del novecento. In questa formula, dal punto di vista ideologico, si riflette il carattere intrinsecamente materialistico della trasmutazione alchemica. Ovvero, l’immenso potere distruttivo del «fuoco centrale» presente in tutti i corpi, celebrato gelosamente dai pitagorici, e ripreso dialetticamente dall’oscuro Eraclito. E’ noto infatti che, per Eraclito di Efeso l’universo deriva da una sostanza elementare, semplice ed unica, il «fuoco», presente in tutti i corpi ed in tutti gli elementi e sempre in continua trasformazione. In proposito, egli sosteneva che come le merci si scambiano con l’oro e l’oro con le merci, così tutte le cose si tramutano in fuoco ed il fuoco in tutte le cose, in un continuo processo ciclico, strettamente materiale. Il simbolo alchemico della materia che circolarmente produce se stessa è rappresentato da un serpente che si morde la coda: l’«uroboros». Attraverso ambigui oracoli, Eraclito alluse a quel fuoco-energia che Einstein individuò quantitativamente all’interno della materia, in questi ultimi tempi. A riguardo, Roland Barthes scrive che Einstein è quasi riuscito a trovare la parola magica che nasconde il segreto del mondo. Da qui, le ragioni del suo mito, nel quale: «vi si ritrovano tutti i temi gnostici: l’unità della natura, la possibilità ideale di una riduzione fondamentale del mondo, il potere di apertura della formula, la lotta ancestrale di un segreto e una parola, l’idea che il sapere totale possa svelarsi solo d’un colpo, come una struttura che ceda bruscamente» (20). Sempre Barthes ribadisce che nel mito einsteiniano confluiscono tutti i contrasti e le contraddizioni possibili, dal momento che egli viene reputato nel contempo: «mago e macchina insieme, cercatore permanente e scopritore inappagato, scatenatore del meglio e del peggio, cervello e coscienza. Einstein esaudisce i sogni più contraddittori, riconcilia miticamente la potenza infinita dell’uomo sulla natura e la ‘fatalità’ di un sacro a cui questi non può ancora sottrarsi». Già dall’aspetto di questo eccentrico scienziato, traspare un che di strano. Capelli al vento, occhi fissi. Insomma, un «qualcosa» di diverso sul quale sono state costruite leggende, forse neanche del tutto infondate. Leo Talamonti ad esempio attribuisce ad Einstein addirittura doti medianiche, dal momento che: «Nel corso di una memorabile seduta medianica, fece sollevare un tavolo. Era medium, e non lo sapeva; può capitare» (21). D’altra parte, Dino Buzzati, in un racconto, «Appuntamento con Einstein», immagina un incontro fra il grande scienziato ed «Iblis», l’Angelo della Morte, incaricato di annunziargli il suo prossimo trapasso. Einstein riesce ad ottenere diverse deroghe a tale sentenza, per poter completare la formulazione della propria teoria. Al termine della fatidica scadenza, terminati i suoi studi sulla relatività, lo scienziato si presenta all’ultimo improrogabile appuntamento. Ma Iblis gli spiega di non essere mai stato interessato alla sua morte, anzi. Lo aveva infatti incalzato unicamente perché portasse a termine la sua teoria fisica, molto utile per le strategie infernali. Ovviamente, si tratta solo di un racconto. Una pura fantasia del suggestivo scrittore, milanese di adozione. Dal quale tuttavia traspare una realtà spesso trascurata, e che investe il lato oscuro connesso a molte scoperte scientifiche, rappresentate da «piccole formulette, pure astrazioni» non del tutto innocue, come solitamente si ritiene. Infatti, benché convinto pacifista ed antimilitarista, insofferente a qualunque disciplina, tranne, forse, a quella delle logge iniziatiche, è arcinoto che Einstein nel 1939 sollecitò Roosevelt a promuovere quegli esperimenti nucleari che culminarono il 6 agosto 1945, con l’esplosione atomica che distrusse Hiroshima. Uno spiacevole incidente di percorso nel progresso della scienza (bellica). Progresso del quale migliaia di vittime innocenti avrebbero volentieri fatto a meno, potendo. Di certo, quella famosa lettera fu una scelta drammatica per Einstein, anche se egli si limitò a firmarla: «Io ho fatto semplicemente la parte della cassetta postale. Mi hanno portato una lettera già pronta, ed io non ho fatto altro che firmarla», confidò in seguito a sua discolpa all’amica e biografa A. Vallentin. Tuttavia, è evidente che la sua autorevole approvazione svolse un ruolo fondamentale nel mettere in moto quel meccanismo perverso che in pochi anni avrebbe innescato conseguenze davvero infernali. Nella Russia di Stalin, dopo un primo rifiuto «ideologico» nei confronti della teoria di Einstein, considerato esponente di una «scienza borghese ed idealista», toccò a Lavrentij Berija, ombra oscura di Stalin, capo della polizia segreta e responsabile del progetto atomico sovietico, ribaltare dialetticamente questa teoria per un fine «nobile»: «Dotare l’URSS dell’arma nucleare di cui l’America già disponeva». Giulietto Chiesa ha scritto che il ribaltamento dialettico dell’interpretazione della relatività venne operato dai due futuri premi Nobel per la fisica, Sakharov e Landau. I quali inviarono a Berija una lettera, ove si afferma che la teoria di Einstein: «ha svolto un ruolo rivoluzionario nello sviluppo della fisica, individuando nuove caratteristiche fisiche dello spazio e del tempo e stabilendo le leggi di movimento delle particelle veloci. Si tratta di una teoria profondamente materialistica nella sua sostanza» (22). Non siamo noi ad affermare la natura «profondamente materialistica» della relatività einsteiniana. Asserzione che peraltro conferma l’esistenza di quando andiamo da tempo sostenendo. Ovvero, la presenza di un fondo ideologico, anticristiano, all’interno delle principali teorie scientifiche. Le quali apparentemente interpretano il mondo dei fenomeni, mentre sostanzialmente lo fanno rientrare all’interno del panteismo materialista che le ha ispirate. Proprio per questa implicita carica ideologica, alcune teorie, e non altre, vengono riprese ed amplificate dalla propaganda mediatica, per trasmettere le loro specifiche conclusioni, in genere rivoluzionarie, ad un pubblico generico e spesso sprovveduto, che risulta così sollecitato a ribaltare, l’interpretazione comune della realtà. A prezzo di una grande confusione, non solo intellettuale. Questa particolare sorte è toccata alla relatività ed al suo famoso autore. Mentre invece teorie altrettanto importanti, come la meccanica quantistica e le idee di Bohr ed Heisemberg, ancora oggi sono quasi del tutto trascurate dalla propaganda mediatica, e pressoché sconosciute al di fuori della cerchia degli specialisti. Di certo, alcune conclusioni della teoria di Einstein così suggestive e così paradossali non potevano che essere rilanciate, e travisate, da una stampa già allora interessata a notizie sensazionali e scandalistiche. La contrazione degli intervalli spazio-temporali, i fantastici effetti della velocità della luce, il paradosso dei gemelli, tanto per citare alcune idee einsteiniane, sono state riprese nel corso di questo secolo in ogni ambito ed in ogni settore. Persino dai Beatles, nel loro film musicale, «Yellow submarine». Fino a far confondere nella mentalità comune, erroneamente, la relatività scientifica con il relativismo. Infatti, l’«ipse dixit»: «tutto è relativo», per molti sprovveduti, costituisce ormai una verità evidente, dimostrata perfino dalla scienza. D’altra parte, non è che Einstein abbia fatto molto per arginare l’ondata di equivoci e di confusione creata dalla stampa e dai media nell’opinione pubblica, più incuriosita che interessata a tali spettacolari conclusioni. Come Galileo che, a differenza dell’altezzoso Newton, rese non solo pubbliche, ma anche saporite ed accattivanti le sue riflessioni scientifiche, anche Einstein si preoccupò di fornire una versione divulgativa della propria teoria. Nel tentativo di rendere gradevole e accessibile la sua formalizzazione teorica circa il continuum spazio-temporale, a volte con tinte persino ironiche, Einstein sembra quasi indurre a credere che le conclusioni valide per le particelle che viaggiano a velocità prossime a quelle della luce, siano estensibili anche ai corpi macroscopici inseriti nella dimensione reale. Dove invece la fisica di Einstein si riduce a quella di Newton. Einstein crea questo equivoco, utilizzando treni, banchine, osservatori ideali, ovvero elementi tipici della dimensione quotidiana, per dimostrare la validità di una teoria straordinaria. Valida cioè solo per velocità prossime a quella della luce, e dunque interdette a quegli stessi corpi utilizzati nei suoi famosi esperimenti ideali. Un esempio ci è dato quando egli raffronta la velocità della luce con quella di un treno che: «si muove rapidamente verso il raggio di luce che proviene da B, mentre corre avanti al raggio di luce che proviene da A» (23). Come se la velocità di qualunque treno non fosse irrilevante e trascurabile se rapportata a quella della luce, che lo stesso Einstein altrove ha definito: «praticamente infinita dal punto di vista dell’esperienza quotidiana» (24). Il linguaggio utilizzato da Einstein in questo opuscolo divulgativo, quando la situazione lo rende possibile, diventa attraente e lieve. Addirittura spiritoso. Che dire infatti quando, nelle pagine iniziali, per cercare di spiegare cosa debba intendersi per «sistema inerziale», scrive: «Se una nuvola ozia su Piazza Colonna, potremo determinare la posizione relativa alla superficie della terra innalzando una pertica (!), perpendicolarmente alla piazza, fino a raggiungere la nuvola» (25). E’ evidente che il pretendere di misurare l’altezza di una evanescente nuvola nel bel mezzo di una piazza mediante l’ausilio di una ingombrante pertica, costituisce un esempio alquanto bizzarro di divulgazione scientifica. Ma ci sono altri aspetti curiosi di quest’opera da mettere in evidenza. Ad esempio quando, per chiarire cosa debba intendersi per «concetto di tempo nella fisica», lo scienziato mette in scena un vero e proprio «fumetto». Che inizia con la seguente asserzione: «Il fulmine ha colpito le rotaie della nostra linea ferroviaria in due punti A e B molto lontani l’uno dall’altro. Aggiungo l’affermazione che i due fulmini sono avvenuti simultaneamente». Trascuriamo la banale osservazione che non si capisce se i fulmini siano due o uno. Ma notiamo che, a parte questo «cavillo», Einstein, oltre ad aver già stabilito i punti A e B dove il fulmine è caduto, afferma anche che i due fulmini sono simultanei. Egli dunque pone come condizione iniziale che i due lampi siano simultanei, anche se non ha ancora chiarito cosa debba intendersi per simultaneità. Ma se stabilisce in precedenza che i fulmini cadano simultaneamente, che senso può avere il tentativo successivo di definire un metodo operativo in base al quale stabilire la verità di un’ipotesi già data per vera, e di una realtà ormai dissolta? Come rendendosi conto dell’insidiosità del gorgo creato, lo scienziato sembra voler correre ai ripari. Rendendo però l’evento dei fulmini ancora più paradossale e divertente. Egli infatti inserisce la fantastica figura di «un abile meteorologo [in grado di prevedere] dopo ingegnose considerazioni, che il fulmine deve sempre colpire simultaneamente i due punti A e B». Le carte devono quadrare in tutti i modi, anche a costo di ricorrere ad ipotesi davvero incredibili. Infatti, se è già molto improbabile che un fulmine si sdoppi e colpisca sempre simultaneamente due stessi punti molto distanti fra loro, è addirittura inverosimile pensare che il fulmine cada sempre, a ripetizione, in questi punti, sulla base delle previsioni di un tanto abile quanto fantascientifico meteorologo. Ma giungiamo al cuore del «fumetto scientifico» escogitato dal famoso fisico. Che così conclude la sua esperienza ideale: «Dopo una certa riflessione, il lettore farà la seguente proposta, per verificare la simultaneità. Con una misura effettuata lungo le rotaie, verrà calcolato l’intervallo che collega i punti A e B, e verrà messo un osservatore nel punto di mezzo M dell’intervallo A e B. Quest’osservatore verrà fornito di un dispositivo (per esempio due specchi inclinati a 90°) che gli permetta di osservare visualmente i due punti A e B contemporaneamente». Il metodo geometrico proposto da Einstein sembra del tutto valido. Ma solo sulla carta. Infatti, solo trasformando gli eventi fisici in punti di un segmento, tutto rientra nel suo discorso. Tuttavia, l’ambiguità del precedente enunciato emerge chiaramente quando l’autore, dopo aver suggerito l’uso del dispositivo a specchi, finalmente afferma che: «Se l’osservatore percepisce i due bagliori del fulmine nel medesimo istante, essi saranno allora simultanei». Sembra un risultato lampante, che non lascia spazio a nessuna replica. Mentre invece, Einstein ha creato una situazione del tutto circolare ed inverosimile. Infatti, l’osservatore, in conclusione, non potrà osservare i bagliori del fulmine, per il semplice fatto che il lampo è caduto all’inizio del suggestivo esempio. A meno che si sia disposti a credere che davvero un lampo possa cadere e ricadere a volontà sempre negli stessi due punti lontani fra loro, così come prospettato da Einstein nelle sue fantasie razionali. Nelle quali la realtà diviene visione, e la visione realtà. Per poi dissolversi insieme, all’ombra di uno slancio prometeico. Sfociante nelle contraddizioni tipiche del panteismo pitagorico. Dal quale gli scienziati massoni sempre attingono. -------------------------------------------------------------------------------- 1) A. Corona, «Dal bisturi alla squadra», Bompiani, Milano, 1987, pagina 101. 2) Nella leggenda Iside, la Natura, è la Vedova privata dei marito, il Sole. «Hiram è il sole, ucciso con il regolo di ventiquattro pollici, le ventiquattro ore del giorno, con la squadra, simbolo delle stagioni per la sua forma equivalente a quella della croce, che esprime il quaternario. Col maglietto, la cui sezione circolare simboleggia l’anno», W. Anceschi, «La Massoneria Iniziatica», Edizioni Rebis, Viareggio, 2002, pagina 27. 3) W. Anceschi, «Ibidem», pagina 8 e pagina 13. 4) Confronta G. Di Bernardo, «La ricostruzione del Tempio - Il progetto massonico per una nuova utopia», Marsilio, Venezia, 1996, pagina 9 e seguenti. 5) «Ad oggi, i pronunciamenti della Chiesa sulla Massoneria sono in totale 586, uno dei più recenti, datato 26 novembre 1983, porta la firma dell’allora cardinale Joseph Ratzinger», in Erasmo notizie, Anno VII, 1 febbraio 2006, pagina 11. 6) «Tutta la natura è importante e la sua conoscenza è fondamentale nella nostra ricerca, come insegnano i rosacrociani», A. De Giovanni, «Massoneria e teurgia», in «Le radici esoteriche della Massoneria - L’arca vivente dei simboli», Atanòr, Roma, 2003, pagina 181. 7) M. Graziani, «Massoneria emulation - La prima massoneria speculativa di tradizione inglese», Bastogi, Foggia, 2003, pagine 33 e 34. 8) Ci siamo soffermati più diffusamente su questo aspetto nell’articolo «La crociata massonica di Newton», EFFEDIEFFE, 4 gennaio 2008. 9) M. Nicosia, «La tradizione pitagorica e la Massoneria», in «Le radici esoteriche della scienza moderna», citato, pagina 70. 10) Ad esempio sul web, la pagina «Massoni celebri». Basta comunque avviare un motore di ricerca sul tema «Einstein e massoneria». 11) M. Caleo, «Galileo l’anticopernicano», Dottrinari, Salerno, 1992. 12) Confronta M. Heindel, «Massoneria e cattolicesimo», Biblioteca esoterica Piovan, Abano Terme, 1987, pagina 10 e seguenti. 13) San Tommaso d’Aquino, «Somma teologica», II-II,1,5. 14) F. Balibar, «Einstein, la gioia del pensiero», Universale Electa-Gallimard, pagina 50. 15) Tramontata la concezione del cosmo inteso come un insieme finito ed armonico, fondato su una struttura spaziale ordinata ad una gerarchia di perfezione e valore, prese avvio l’idea «di un universo indefinito, o anche infinito, non più unito da una subordinazione naturale, ma unificato soltanto dall’identità delle sue leggi e delle sue componenti ultime e fondamentali; nonché la sostituzione della concezione aristotelica dello spazio - insieme differenziato di luoghi naturali - con quella della geometria euclidea - mera estensione infinita ed omogenea - da quel momento considerata identica allo spazio reale del mondo», A. Koyré, «Dal mondo chiuso all’universo infinito», Feltrinelli, Milano, 1970, pagina 8. 16) S. Shapin, «La rivoluzione scientifica», Einaudi, Torino, 2003, pagina 60. 17) I. Newton, «Principi matematici della filosofia naturale», UTET, Torino, 1965, pagine 96 e 802. 18) I. Newton, «Il sistema del mondo e gli scolii classici», Edizioni Theoria, Roma, 1983, pagine 155 e 156. 19) Confronta, A. Castaldo, in A. Lista, «Philosophia Hermetica - Le basi universali della Massoneria Universale», Editrice Miriamica, 1992, pagina 8. 20) In «Einstein, la gioia del pensiero», citato, pagina 115. 21) L. Talamonti, «I protagonisti invisibili», Rizzoli, Milano, 1990, pagina 143. 22) G. Chiesa, «Il boia e lo scienziato», La Stampa, Torino 13 novembre 1994, pagina 22. 23) A. Einstein, «Relatività - Esposizione divulgativa», Boringhieri, Torino, 1964, pagina 44. 24) A. Einstein, «Pensieri degli anni difficili», Boringhieri, Torino, 1965, pagina 235. 25) A. Einstein, «Relatività - Esposizione divulgativa», citato, pagina 24 e seguenti di Giancarlo Infante (Effedieffe.com) |
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