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Perchè Credo, di Vittorio Messori PDF Print E-mail
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Perchè Credo, di Vittorio Messori "Perchè credo è l'ultima e bella fatica del maestro Vittorio Messori, una dichiarazione di amore verso Cristo e la Chiesa scritta con la partecipazione di un Principe del Vaticanismo Italiano, Andrea Tornielli. Un libro che nelle case dei cattolici non può mancare e vi inviatiamo a comprare e soprattutto leggere con entusiasmo".[Bruno Volpe] - Quello che ha preso corpo in queste pagine è un progetto del quale da tempo accarezzavo l’idea. È stato molto interessante dialogare con Vittorio Messori, sulla sua conversione e sull’esperienza, mai da lui dettagliatamente descritta, che nell’estate del 1964 ha trasformato in un difensore del dogma cattolico e in un diffusore della devozione mariana un perfetto prodotto della cultura laica e agnostica della Torino di Norberto Bobbio (di cui è stato allievo), di Alessandro Galante Garrone (con il quale si è laureato), degli autori della casa editrice di Giulio Einaudi, degli ...

... editorialisti de «La Stampa» (dove ha lavorato dieci anni). È stato interessante soprattutto per me che, educato alla fede fin dall’infanzia, l’ho riscoperta e approfondita con il passare degli anni, senza averla però mai abbandonata.

Il tragitto del convertito è, invece, più tortuoso e spesso più affascinante. Egli vive come novità ciò che, per chi è da sempre cristiano, rischia di diventare abitudine. Se poi questo convertito non è un personaggio già illustre che ha incontrato per Grazia la via del Vangelo, ma è invece un uomo, un giornalista, che è diventato famoso autore di best-seller proprio per aver affrontato le grandi domande sulla fede, sulla sua ragionevolezza, sui suoi fondamenti storici, la sua vicenda personale non è soltanto curiosa, ma rappresenta un percorso con cui è utile, per tutti, confrontarsi. In effetti, Messori è diventato l’autore che sappiamo perché, in un’epoca in cui anche molti religiosi, credendosi alla moda, scoprivano con entusiasmo Marx e Freud e sul pulpito sembravano sociologi, comizianti o psicoanalisti, ha avuto il coraggio di domandarsi nuovamente chi fosse quel Gesù di Nazaret sulla cui resurrezione sta, o cade, l’intero edificio della fede.

Erano gli anni del postconcilio, anzi della crisi del postconcilio. Anni segnati da molte speranze, anni di rinnovamento, ma anche di abusi e di crisi. Crisi e abusi che hanno minato spesso la fede dei semplici e hanno provocato nella Chiesa cattolica la maggiore emorragia di religiosi e di religiose della sua storia due volte millenaria. Soltanto la Riforma protestante, quasi cinque secoli prima, aveva determinato uno svuotamento quasi equivalente di seminari, conventi, monasteri e parrocchie.

Diceva Paolo VI, il 25 aprile 1968, fotografando la situazione ecclesiale del momento: «Rinnovamento, sì; cambiamento arbitrario, no. Storia sempre viva e nuova della Chiesa, sì; storicismo dissolvitore dell’impegno dogmatico tradizionale, no; integrazione teologica secondo gli insegnamenti del Concilio, sì; teologia conforme a libere teorie soggettive, spesso mutuate da fonti avversarie, no; Chiesa aperta alla carità ecumenica, al dialogo responsabile e al riconoscimento dei valori cristiani presso i fratelli separati, sì; irenismo rinunciatario alle verità della fede, ovvero proclive ad uniformarsi a certi principii negativi, che hanno favorito il distacco di tanti fratelli cristiani dal centro dell’unità della comunione cattolica, no; libertà religiosa per tutti nell’ambito della società civile, sì, come pure libertà di adesione personale alla religione secondo la scelta meditata della propria coscienza, sì; libertà di coscienza, come criterio di verità religiosa, non suffragata dalla autenticità d’un insegnamento serio e autorizzato, no. E così via».

Era il discrimine, erano i paletti per una corretta interpretazione del rinnovamento conciliare. Parole dimenticate di un papa certamente moderno ma, al contempo, custode della Tradizione. Qualche anno dopo, il 29 giugno 1972, papa Montini avrebbe detto: «Anche nella Chiesa regna questo stato di incertezza; si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza […]». In mezzo a questa bufera, per molti versi drammatica, Vittorio Messori, neoconvertito al cristianesimo, anzi al cattolicesimo, nella laica e secolarizzata Torino della prima metà degli anni Sessanta, impiega dodici anni per scrivere un libro, Ipotesi su Gesù. Il libro che egli, affamato di verità su quel Nazareno che aveva appena scoperto, non trovava. Non lo trovava sugli scaffali delle librerie cattoliche, zeppe fino all’inverosimile di saggi e studi di tutt’altro argomento, soprattutto sociale e politico, oppure dedicati alla demolizione proprio della storicità di Cristo.

Non lo poteva di certo trovare nelle librerie laiche. Quella fede scoperta come per un’illuminazione, che lo aveva portato a immergersi nella lettura dei Vangeli, era assetata di risposte, di approfondimenti, di testimonianze, di fondamenti ragionevoli. Non cercava, il giornalista convertito, principalmente analisi sulla società, sulla povertà materiale e sulle sue cause, sull’impegno politico e sociale dei cattolici, sull’applicazione delle scienze umane al cristianesimo. Messori aveva fame e sete di certezze sulla storicità di quell’uomo venuto al mondo in un villaggio sperduto dell’Impero romano. Un uomo che rappresentava un punto apparentemente insignificante nella storia, ma che avrebbe finito per dividerla definitivamente in due, con la sua venuta. Quell’uomo, unico tra tutti, aveva detto di essere «la Via, la Verità e la Vita» e si era attribuito, lui, figlio di un carpentiere di Nazaret e di una giovane e umile ragazza ebrea, un’origine divina.

Che cosa c’è di vero in questa storia, in questo racconto, che da duemila anni riecheggia nel mondo? Gesù Cristo è davvero il figlio di Dio? È davvero lui il Messia atteso da Israele, annunciato dalle profezie? E, soprattutto, è davvero risorto? Domande che Messori affrontava approfondendo studi per lui nuovi, riflettendo e confrontando, recandosi in Israele per sopralluoghi nei posti evangelici stessi, interrogando biblisti, archeologi, storici, credenti e increduli. Una ricerca alle radici della fede, uno scavo sui suoi fondamenti, un percorso alla scoperta di ciò che sta all’origine di duemila anni di cristianesimo. Il libro che ha scritto e pubblicato nel 1976 l’ha dunque scritto innanzitutto per lui. Malgrado lo scetticismo di molti clericali – che lo esortarono addirittura a lasciar perdere, fiutando una «ormai inaccettabile apologetica» – erano in tanti, davvero in tanti, che l’attendevano.

Ipotesi su Gesù è diventato un best-seller mondiale (e ancora oggi, a trent’anni di distanza, non ha ancora finito il suo percorso: ristampato, tradotto, ritradotto) perché le domande di Messori erano le domande che moltissimi si ponevano e che non trovavano risposta. Una risposta seria, rigorosa ma divulgativa, comprensibile, adatta al grande pubblico, non circoscritta all’ambito degli esperti, degli accademici.

Il lavoro del giornalista, anzi del “cronista”, come Messori ama ancora oggi definirsi – se il Vangelo è innanzitutto la “buona notizia”, in fondo i cronisti sono i primi interessati a conoscerla – è continuato negli anni successivi, con nuovi libri e nuovi approfondimenti. Sono stati passati al vaglio, con metodo, molti altri aspetti della vita di Gesù, la sua passione, la sua morte e resurrezione. Centinaia di articoli, decine di libri, confronti e dibattiti. Con lo stesso impegno, dopo essere andato a «guardare in cantina», per saggiare le fondamenta della fede, Messori ha indagato sulla storia della Chiesa, cioè di quella istituzione e di quel popolo che continua ancor oggi a custodire, tramandare e diffondere l’annuncio di duemila anni fa. Ne ha studiato i periodi cosiddetti “bui”, ha sfatato errori e leggende nere, con onestà e competenza.

La sua ricerca si è comunque sempre mossa nell’ambito dei fondamenti. Sono passati, lo dicevamo, più di trent’anni dall’irruzione – improvvisa e imprevista – di Ipotesi su Gesù, ma quell’intuizione è rimasta di grande attualità anche oggi; forse, soprattutto oggi. Certo, la Chiesa non vive più la crisi postconciliare, tanti sommovimenti sembrano appartenere al passato e le posizioni della Gerarchia hanno il loro posto e svolgono il loro ruolo anche all’interno del cosiddetto circo mediatico.

La domanda sulla fede, però, resta. La Sposa di Cristo appare oggi in prima linea nella difesa della dignità della vita umana, nelle frontiere della bioetica, nella buona battaglia per riaffermare i principi morali umani prima ancora che cristiani, in un mondo sconvolto dalle guerre, pervaso dal relativismo e da una tecnica scientifica che non vuole e non può conoscere limiti.

Eppure, oggi come sei lustri fa, la questione vera è più radicale e, forse, non percepita con la dovuta impellenza e drammaticità. Che ne è della fede in Gesù Cristo? Quell’uomo è davvero esistito, ha compiuto miracoli, è risorto? Questo attaccamento alla radice del problema, accompagnato da una buona dose di realismo cristiano – e anche di umiltà, pur sotto apparenze lievi, ironiche – ha fatto sì che Messori non sia mai diventato un moralista.Non ha mai voluto diventare una sorta di notabile ecclesiale, conservando anzi uno stile mordace se non beffardo davanti a ogni ufficialità; non è il convertito che ama sbandierare frequenze alla messa quotidiana o rosari recitati, non fa prediche al prossimo, come se fosse investito di una particolare missione. A differenza di tanti, in questi decenni, non ha mai assunto pose “profetiche”, come se fosse tra gli “iniziati” che hanno finalmente scoperto che cosa sia e debba essere la fede cristiana. Non si troverà in lui neanche mezzo accenno di apocalittico pessimismo sul futuro, o di nostalgia bacchettona per i tempi che furono. Messori, che pure è un estimatore e un devoto di Pio IX (il papa,tra l’altro, della Immacolata che apparve nella Lourdes che ama, per confermare il dogma da quel grande papa fortemente voluto) non ha alcuna nostalgia per lo Stato Pontificio che estendeva i suoi confini e la sua influenza anche nell’Emilia dov’è nato. Così come non ha nostalgia per la Chiesa pre-conciliare, per certi esteriori ritualismi o per una presenza e un’influenza maggiore del clero nella vita della società. Ha scritto anzi, più volte, che dovere del credente laico è «vigilare, perché il clericalismo è la patologia che minaccia sempre il cristianesimo, in particolare il cattolicesimo».

Non ha alcuna dimestichezza con il moralismo di chi pretende di essere un esempio da imitare. Anzi, la morale, i temi legati all’etica, sono quelli che lo hanno sempre interessato di meno, convinto che ciò che importa è la fede, dalla quale discende necessariamente il bisogno o, almeno, l’aspirazione a un comportamento morale coerente. Così come – malgrado gli studi universitari in Scienze Politiche – si è sempre imposto di star lontano dalla politica, sia negli scritti e nelle parole, sia in un impegno attivo, che pure gli è stato più volte proposto. Tra i pochi meriti che si attribuisce è di non avere mai apposto la sua firma sotto appelli, documenti, dichiarazioni pubbliche, neanche in quel Sessantotto e nella sua lunga coda che pure egli ha tutto attraversato. Mentre i suoi coetanei sfilavano, manifestavano, talvolta sparavano, Vittorio studiava e rifletteva sull’enigma del Gesù della storia, «aspettando» dice «che, come tutti i carnevali, finisse anche quello».

Il suo sguardo – spesso ironico e distaccato nei confronti di tanti affannati e peraltro benintenzionati “impegni” sociopolitici – è quello di chi sa che è Dio a condurre i destini del mondo in modi a noi incomprensibili. E che, soprattutto, sa ciò di cui l’uomo di oggi, come quello di tutte le altre epoche, ha bisogno: non un discorso, non una morale, non una teoria o una regola di vita, ma l’imbattersi nella bellezza e nella pienezza della gioia, cioè incontrare come vivo e presente quell’Uomo di Nazaret. I cristiani non sono una categoria di persone meste, costrette a rinunciare a qualcosa della loro umanità. Anzi, il contrario. Il cristianesimo, e soprattutto il cattolicesimo, come bene spiegherà lo stesso Messori nelle pagine che seguono, è la religione dell’et-et, non dell’aut-aut. Il cattolico vuole tutto, «possiede» in un certo qual modo tutto, non è costretto a scegliere, laddove questo scegliere, assolutizzando un unico aspetto, rappresenta l’inizio dell’eresia. Oggi, nonostante sia passata la bufera che ha investito la Chiesa negli anni Sessanta e Settanta, sembra di vivere in un’epoca in cui, all’interno dello stesso corpo ecclesiale, si possono mettere in discussione i fondamenti, ma non le conseguenze. Si può mettere in discussione la resurrezione di Gesù e la verginità di Maria, la storicità dei Vangeli e la presenza reale del corpo e del sangue di Cristo nell’eucaristia, ma è molto più difficile dissentire sul preservativo o sulla fecondazione in vitro. Così, escono libri (stampati magari da editori di tradizione cattolica e diffusi dalla rete delle librerie confessionali) che attentano alla fede dei semplici negando la storicità dei Vangeli, e la reazione di certo clero spesso è rappresentata da una bella scrollata di spalle, perché «si tratta solo di romanzi». Poi si scopre che molti, troppi giovani, a motivo di un romanzo o di un film, hanno messo in discussione la loro fede, così povera di ragioni e di esperienze vere, e hanno abbandonato la Chiesa, mentre sulle pagine dei giornali campeggiano quotidianamente invettive, chiarimenti, esortazioni di moralisti e vescovi sulle grandi questioni etiche.

Prese di posizione che finiscono, talvolta, per rendere la Chiesa più estranea nei confronti di un’opinione pubblica che, lontana dall’esperienza della fede ed estranea anche ai richiami alla “morale naturale”, fatica a comprendere il perché di certi divieti. Invece di annunciare e presentare in modo credibile il fondamento della fede – complice anche l’enfatizzazione dei media, sempre interessati a sottolineare ciò che può avere risvolti politici – si finisce per insistere di più sulle sue conseguenze, dando per scontata l’esistenza del primo per concentrarsi sulle seconde. Di fronte a questa situazione, Messori non si strappa le vesti, non inveisce, non tuona contro la “nequizia dei tempi”. Non fa neppure il pessimista in servizio permanente effettivo. Anzi, ironizza su certi predicatori apocalittici ricordando la battuta del solito Ennio Flaiano: «Non chiedetemi dove andremo a finire, perché ci siamo già». Dice di trovarsi bene in questo mondo postmoderno, dove il credere è più che mai una libera “scommessa” e dove i cristiani – “piccolo gregge” per definizione stessa di Gesù – possono ritrovare la loro funzione di lievito, di sale, di granello di senape. Ha scritto di recente, in un articolo in cui rifletteva sul suo compleanno, non dimenticando (lui, l’autore di Scommessa sulla morte) di essere ormai anziano, secondo l’anagrafe: «Mi trovo a mio agio in questa open society, in questa società aperta, come la chiamava Karl Popper, questa società sempre più meticcia e sempre più complessa.

Amo la libertà annunciata dal Cristo e dal suo Vangelo, da proporre e mai da imporre. So che non può esserci virtù vera senza la possibilità di optare per il peccato. Mi piace la vita come avventura, dove santi e mascalzoni si intersecano, dove si confrontano il bene e il male. Amo le metropoli, le giungle d’asfalto, ben più del controllo sociale del villaggio amo il ribollire delle grandi città, dove la storia si costruisce attraverso la trama infinita dei liberi rapporti umani. Mi angoscia invece la vita come caserma dei fascisti, come falansterio sociale dei comunisti, come casetta di Biancaneve degli ecologisti, come convento o seminario obbligatori dei clericali. Tutti i miei libri, del resto, li ho scritti pensando all’uomo della città secolare, non ai nostalgici di una cristianità ormai dissolta».

Continua, così, ad «andare in cantina», a scavare attorno alle fondamenta, per fornire qualche indizio in più ai suoi tanti lettori sulla ragionevolezza della fede in quel Figlio di Dio che, resuscitando, ha trasformato un gruppuscolo di uomini atterriti e delusi in instancabili annunciatori della “buona notizia”. Erano in dodici, si sono fatti ammazzare per permettere che quella storia nata tra il regno di Augusto e quello di Tiberio in un oscuro angolo di terra ai confini dell’Impero romano raggiungesse anche noi, oggi, uomini e donne del terzo millennio, che navighiamo in Internet, usiamo l’e-mail e l’iPod, ma che abbiamo nel cuore lo stesso infinito desiderio di felicità e di realizzazione che albergava nei nostri antenati, due millenni or sono. Quel gruppuscolo di uomini, così realisti e concreti – non per nulla pescatori o artigiani o gabellieri – non si sono “inventati” una nuova e inedita religione, si sono invece arresi a un’evidenza, così vera e così reale da rappresentare una buona ragione per perdere la propria vita pur di annunciarla, perché tutti potessero conoscerla. Non hanno annunciato utopie di cambiamento immediato e radicale della società, non hanno innanzitutto tuonato contro la legislazione romana, contro l’immoralità imperante all’epoca. Hanno fatto – semplicemente – quel cristianesimo che, dice questo nostro cronista, «sarebbe morto nella culla se, dopo l’Ascensione, gli Apostoli si fossero riuniti per dibattere un “piano pastorale” e redigere delle “linee direttive per il dialogo”».

Questo atteggiamento positivo, disincantato, per nulla bigotto o clericale, allergico a certa attuale burocrazia e “documentite” ecclesiali, ma totalmente ancorato a una certezza di fede salda come la roccia – non grazie ai meriti o alla personalità dell’interessato, ma grazie alla forza divina del suo fondamento – ho trovato in Vittorio Messori. Per questo la sua figura si pone come atipica nel panorama ecclesiale e culturale di oggi. Non ha peli sulla lingua, né parla l’“ecclesialese”, cioè quel tipico linguaggio autoreferenziale nato e cresciuto all’interno delle strutture cattoliche, nutrito dai convegni e dalle commissioni clericali, spesso stereotipato e tanto più ripetitivo quanto meno agganciato alla reale esperienza umana. E non lo si può facilmente arruolare o collocare in questo o quello schieramento. Non è un tradizionalista, non è un moralista né un teocon. Aborrisce l’uso strumentale della fede cristiana in funzione di battaglie politico-culturali o il riferimento alle radici cristiane ridotto a puro slogan da parte di coloro che non sono interessati alla vita reale di queste “radici”, ma a manifesti ideologici per giustificare scontri di civiltà o
magari carriere politiche. Mi piace ricordare che durante le giornate di lavoro dalle quali ha preso forma questo libro, per il pranzo, con Vittorio e con la moglie Rosanna (alla quale devo un ringraziamento particolare per aver facilitato la realizzazione del mio progetto) siamo sempre andati in una pizzeria dalla quale si gode un eccezionale panorama sul lago di Garda, gestita da egiziani.

Lì si mangia una pizza eccellente, nonché diverse specialità a base di carne di struzzo. Non potrei immaginare un cocktail più variato per i nostri incontri: il pizzaiolo islamico, la pizza con prosciutto di struzzo (che non appartiene di certo all’identità culinaria lombardo-veneta), ore trascorse in compagnia nel tentativo di usare la ragione e, proprio sulla base di questa, nessuna riserva nel criticare l’appiattimento, oggi molto in voga, che sembra legare i destini del cristianesimo a quelli dell’Occidente, facendo riemergere atteggiamenti da crociata che si credevano ormai sepolti nei meandri della storia.

Anche in questo, dunque, Messori sorprende e spiazza. Si dice disposto, con tranquilla umiltà, a farsi ammazzare pur di non abiurare la propria fede, ma guarda alla storia, alla politica, alle vicende travagliatissime di questo nostro tempo con quel distacco e quell’ironia – che sa essere innanzitutto autoironia – di chi crede davvero che nelle pieghe della storia si riveli un disegno ancora a noi incomprensibile, ma tessuto dalla mano di un Dio presente, che agisce e ci conduce verso la meta. Il Padreterno, ama ripetere, sa scrivere dritto su righe storte. E noi, aggiunge, non possiamo mai dimenticare di essere soltanto servi inutili: dobbiamo fare, dunque, il nostro dovere, ma senza affanno, con calma, fiduciosi che il Padrone tiene saldamente, nelle Sue mani onnipotenti, i fili dell’Universo intero. Ama profondamente la Chiesa, sa che ci sarà ancora alla fine dei tempi, ma non lo scandalizza la possibilità che l’inaffondabile “nave di Pietro” giunga al traguardo della Parusia, il ritorno di Cristo, non come un superbo galeone a bandiere spiegate ma come una misera zattera carica di povera gente, sorretta però dalla fiducia nella verità del Vangelo. Gli incontri dai quali è nato il libro sono avvenuti in quello che è diventato il rifugio di Messori, nonché una delle passioni che lo tengono costantemente impegnato: l’abbazia di Maguzzano, nel comune bresciano di Lonato, su una piccola collina che domina il lago di Garda, in un paesaggio di olivi e cipressi miracolosamente scampato alla cementificazione e per difendere il quale egli ha creato il primo, e unico, “comitato” della sua vita, per il quale ha subito minacce e danni materiali. Maguzzano è l’antica abatiola benedettina che sorgeva presso una strada romana e che fu fondata in epoca carolingia.

Incendiata dagli ungari, devastata dalle truppe viscontee nel 1339, riedificata nel 1490, soppressa da Napoleone, è ritornata dimora di monaci nel 1904, affidata a una comunità di trappisti, cistercensi di stretta osservanza, provenienti dall’Algeria, che vi sono rimasti fino al 1938. Da allora, l’abbazia è passata a don Giovanni Calabria, il prete veronese, canonizzato nel 1999, che aveva da poco fondato la Congregazione dei Poveri Servi della Divina Provvidenza. Qui Messori ha ricavato uno studio, riempito ovviamente di libri fino all’inverosimile. Qui scrive e lavora, dedicandosi anche all’abbellimento e al restauro dell’abbazia e promuovendo studi storici e scavi archeologici perché, dice, non ha futuro una Chiesa ignara del suo passato. Qui è avvenuto il nostro dialogo, che si è protratto per vari giorni. Non è stato sempre facile costringere il mio interlocutore a parlare delle sue esperienze personali, del suo passato, della sua conversione. Anzi, ho dovuto faticare non poco anche per convincerlo a dire di sì all’idea stessa di pubblicare questo libro. Le pagine che seguono sono dunque un cocktail – al lettore decidere se riuscito o meno – che cerca di mescolare a giuste dosi il racconto della vita di Messori e alcune delle conclusioni alle quali è giunto con i suoi studi. Il risultato di decenni di lavoro, di decine di libri di successo in tutto il mondo, di interviste a papi e futuri papi, di taccuini, di interventi, è in qualche modo distillato in questo dialogo che può essere, forse, considerato un invito alla lettura delle sue opere, oltre che la testimonianza di un cristiano come lui. Il quale, come mi ha ripetuto, ha un solo, grande rammarico: constatare ogni giorno che la “conversione della mente” – che fu, ed è, totale – troppo spesso non si sia accompagnata alla “conversione del cuore”. E che, dunque, debba unirsi al lamento del “suo” Blaise Pascal: «Quanta distanza c’è, in me cristiano, tra il pensiero e la vita!».

di Andrea Tornielli

 
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