Trent'anni fa... Giovanni Paolo II |
“Aspettiamo ancora un Santo”. Il cardinal Stanislaw Dziwisz, per anni collaboratore di Giovanni Paolo II (prima da cardinale, e poi da Papa) non nasconde l’attesa per la canonizzazione del suo amico e “padre” (perché quello che aveva nei suoi confronti era piuttosto un rapporto filiale) Karol Wojtila. Lo dice senza mezzi termini, mantenendo un certo riserbo quando gli si chiede se lui con Giovanni Paolo II ci parla, o lo prega. Probabilmente, tutte e due le cose. Il processo di canonizzazione, però, prosegue senza accelerazioni, ma anche senza ritardi. È un processo straordinario, come straordinario (in tutti i sensi) è stato il percorso di un Papa che ha saputo cavalcare la disgregazione del regime comunista, la fine della Guerra Fredda, ma che ha anche portato avanti con veemenza l’idea di una Chiesa protagonista, ed ha messo in primo piano la questione sociale e la questione della vita. Su quest’ultima, ... ... in particolare, ha avuto un che di profetico, quando propose “una linea Maginot” con il mondo musulmano per difendere la vita. Un appello al dialogo interreligioso su un tema che proprio con i musulmani trovava ampia convergenza: l’attacco alle politiche antinataliste e abortiste, e la volontà di riproporre per contrasto una politica a favore della famiglia. Un tema, questo, che diventerà sempre più centrale nella politica mondiale. Come quello del dialogo interreligioso. Una cavalcata lunghissima, quella di Giovanni Paolo II al soglio di Pietro. Cominciata quasi a sorpresa, anche per gli addetti ai lavori. Il 16 ottobre di trent’anni fa ci si aspettava una fase di stallo nelle votazioni. La corsa sembrava a due: da una parte il partito considerato “progressista” del cardinal Benelli, dall’altro il partito più “conservatore” capitanato dal cardinal Siri. Una competizione a due che metteva il conclave in fase di stallo. E invece, quasi a sorpresa, i cardinali misero fuori il nome di Karol Wojtila: primo Papa non italiano dopo quattrocento anni, primo Papa slavo. Un Papa che veniva dalla cosiddetta Chiesa del silenzio, per darle voce. Un segnale forte da parte dei cardinali. Sorprendente, il pontificato è stato sin dall’inizio: da quel “se sbaglio, mi corrigerete” pronunciato subito dopo la sua elezione, parlando alla folla dei fedeli; dal suo avvicinarsi ai giornalisti, con uno strappo senza precedenti al protocollo, dopo il primo incontro con la stampa vaticana. “Santità – gli chiesero – quando sarà possibile parlarle di nuovo così, faccia a faccia?”. “Quando me lo permetteranno”, rispose Giovanni Paolo II. Fare un bilancio di pontificato sarebbe troppo lungo. Ma ricordare l’uomo e il Papa, allo stesso tempo, si può, e si deve. E su questo un testimone straordinario è il cardinal Dziwisz, che con il Papa ha passato praticamente una vita. Non alla sua ombra, ma sotto la sua luce, come ama dire lui. Ne viene fuori un ritratto di grande umanità. Ma anche di forza. “Non era mai sottomesso alle situazioni: era sempre lui che decideva cosa fare”, racconta Dziwisz. Che un giorno si sentì dire dal vescovo Wojtila: “Perché non vieni a darmi una mano?”. “Quando”, chiese lui. “Già stasera”. “Vengo domani”, rispose. Ed è un domani che si è ripetuto giorno dopo giorno, fino alla morte del Pontefice. Un Papa che amava i giornalisti. “Una volta – è sempre Dziwisz a parlare – un giornalista scrisse un articolo molto critico sul Papa. Lo trovai in giro per l’appartamento papale con il giornale in mano, che diceva: ‘Meritavo di peggio’”. Era anche Dziwisz a tenere i rapporti con i giornalisti. Più che un filtro, un amico per loro, che si rivolgono a lui con confidenza e lo chiamano “don Stanislao”, nonostante la porpora cardinalizia. Di Giovanni Paolo II si potrebbe ricostruire una pastorale sui gesti: era stato attore, e sapeva come stare nelle folle. Roteava un bastone, si avvicinava alle persone e le guardava diritto negli occhi, anche nella sofferenza finale i suoi gesti erano vivi, presenti. Come quando, ormai quasi del tutto debilitato dalla malattia, fece volare una colomba dal balcone del suo appartamento papale, dopo aver assistito alla lettura del discorso senza poter proferire una parola. E la colomba tornò indietro, quasi a chiedergli di restare lì. Gesti che colpivano soprattutto i giovani. Che Giovanni Paolo II amava, ricambiato. Durante l’agonia, furono i giovani a riempire piazza San Pietro, giorno dopo giorno. Lui li aveva cercati: aveva creato le GMG quasi per caso, e ne aveva ricevuto una risposta entusiasta. Allora le istituzionalizzò. L’apice resta la Gmg del Giubileo, quella di Roma: il Papa che balla con i ragazzi, e che dice loro “duc in altum”, mirate in alto. Un appello che ricorda quello paolino di “mirare sempre ai più alti carismi”, quanto mai opportuno in un anno paolino. A trent’anni dall’elezione, c’è una generazione intera che è cresciuta conoscendo solo lui come Papa, non avendo nemmeno l’idea di una possibile alternanza. Gli stessi giovani che già il giorno del funerale, quando un gesto estremo e inaspettato ha fatto sì che il vento sfogliasse il Vangelo sulla semplice bara di legno (che si è chiuso e riaperto, come a raccontare che si è chiusa la parentesi terrena di Giovanni Paolo II ed è cominciata quella nel Cielo), hanno mostrato gli striscioni: “Santo subito”. Articolo del dott. Andrea Gagliarducci ( Indirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo ) |
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