Bioetica: una legge sul "fine vita" |
Il caso Eluana Englaro, con la sentenza della Cassazione che ha di fatto permesso al padre e turore di Eluana, Peppino Englaro, di sospendere l’idratazione e l’alimentazione della figlia, ha aperto un nuovo dibattito all’interno del mondo cattolico: sull’opportunità o meno di una legge sul fine vita, che possa così regolamentare una materia che la sentenza della Cassazione ha reso, in pratica, più liberale di una legge sul testamento biologico. E ora, il dibattito parlamentare sul testamento biologico, avviato la scorsa legislatura con ben sette proposte di legge (tra cui quella delle cattoliche teo-dem Emanuela Baio e Paola Binetti), poi accorpate in un unico testo, rischia di diventare del tutto obsoleto. Ecco perché nell’Associazione Scienza&Vita (il think tank cattolico su scienza e bioetica, salutato da Ruini al convegno della Chiesa di Verona come una delle tre espressioni della Chiesa del mondo) i presidenti Maria Luisa Di Pietro e Bruno Dalla Piccola hanno operato e promosso un’apertura verso una legge sul fine vita. Una scelta che ha portato anche delle fratture interne all’associazione, come quella di Pessina, che ha visto in questa apertura uno spalancare le porte al testamento biologico. In realtà, il dibattito solo apparentemente è tra chi è a favore e chi è contrario ad una legge sul cosiddetto testamento biologico. In realtà, se fosse questo il problema, non ci sarebbe alcuna discussione, perché tutti nel mondo cattolico sono dell’opinione che una legge del genere non serve. Nei fatti, la discussione è tra chi si è reso conto del peso e degli effetti della sentenza della Corte di Cassazione sul caso Englaro, e chi invece no. La sentenza sul caso Englaro è dello scorso ottobre, cioè di quasi un anno fa. Nel testo si può leggere che “il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche eventualmente di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale”; si riconosce che il consenso informato è “un vero e proprio diritto fondamentale del cittadino europeo”, e si ricorda da un precedente pronunciamento che “in presenza di una determinazione autentica e genuina dell’interessato nel senso di rifiuto della cura, il medico non può che fermarsi, ancorché l’omissione dell’intervento terapeutico possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell’infermo e, persino, la sua morte”. Questa interpretazione fa sì che, senza consenso informato al trattamento sanitario, il paziente possa essere lasciato morire. Di più. “ma – si legge nella sentenza – accanto a chi ritiene che sia nel proprio miglior interesse essere tenuto in vita artificialmente il più a lungo possibile, anche privo di coscienza, c’è chi, legando indissolubilmente la propria dignità alla vita di esperienza e questa alla coscienza, ritiene che sia assolutamente contrario ai propri convincimenti sopravvivere indefinitamente in una condizione di vita priva della percezione del mondo esterno. Uno Stato come il nostro, organizzato, per fondamentali scelte vergate dalla Carta Costituzionale, sul pluralismo dei valori, e che mette al centro del rapporto tra paziente e medico il principio di autodeterminazione e la libertà di scelta, non può che rispettare questa scelta”. In parole povere: il paziente può rifiutare ogni tipo di trattamento, anche salvavita, indipendentemente dal fatto che sia o meno accanimento terapeutico. Di più: la sentenza specifica che “non v’è dubbio che l’idratazione e l’alimentazione artificiali con sondino naso gastrico costituiscono un trattamento sanitario”. La sentenza, quando fu emessa, suscitò le preoccupazioni del presidente emerito del Comitato Nazionale di Bioetica Francesco D’Agostino, e quello dell’attuale sottosegretario al ministero del Welfare per le questioni bioetiche Eugenia Roccella. Roccella nega l’ipotesi di un testamento biologico (ma ormai il dibattito è arrivato in Parlamento, quindi sganciato da ogni iniziativa del governo), ma propone la possibilità di una legge sul fine vita. E anche Assuntina Morresi, membro del Comitato Nazionale di Bioetica, ritiene che “una legge sul fine vita è necessaria: una legge che dica no all’eutanasia, che tuteli i soggetti più deboli, cioè quelli che non sono più in grado di dare il proprio consenso ai trattamenti sanitari, una legge che stabilisca che idratazione e alimentazione artificiali non sono trattamenti sanitari. Una legge che entri nel merito del consenso informato, che stabilisca che deve essere dato per iscritto e che non è possibile desumere le volontà di una persona in coma dagli stili di vita che aveva quando era sana, una legge che non permetta di sospendere l’alimentazione e l’idratazione a un malato solo per qualche frase detta agli amici venti anni prima”. Una legge, insomma, che vada a colmare il vuoto della giurisprudenza creato dalla sentenza della Cassazione (che è definitiva) sul caso di Eluana Englaro. Ma, più che di testamento biologico, nel mondo cattolico si preferisce parlare di “dichiarazione anticipata di trattamento”. Le parole, in questi casi, hanno certamente un peso. Chiamarlo “dichiarazione anticipata di trattamento” serve ad evidenziare la differenza di questa carta dai testamenti che regolano il patrimonio. Tra l’altro, il presidente del Pontificio Consiglio per la Vita, monsignor Fisichella, ha dichiarato: “Testamento biologico è un’espressione di per sé vuota, bisogna capire cosa significa e di quali contenuti viene riempita”. Rubrica a cura del dott. Andrea Gagliarducci ( Indirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo ) |
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